Novi Ligure (a.r.) – A ben guardare, noi lo dicevamo fin dallo scorso anno: ai Toksoz, della Pernigotti, non frega un tubo. Non tanto del marchio, che, come è sempre stato chiaro, non avevano intenzione di mollare neanche sotto tortura, ma della sede storica dell’azienda con annessi operai, il cui destino sembra ormai segnato: demolizione per far spazio ad un complesso residenziale. Almeno questo è l’obiettivo della proprietà, la quale si è rivolta al Tar per impugnare la variante al piano regolatore di Novi Ligure pensata ad hoc per impedire speculazioni edilizie sulla Pernigotti e che, c’è da crederlo, andrà fino in fondo pur di aver mano libera su ciò che ritiene, ed è, cosa propria.
Si può dargli torto? Mica tanto, perché, se vogliamo dirla tutta, i turchi non hanno fatto altro che giocare fin dall’inizio secondo le regole di un gioco infame, quello del libero mercato in epoca liberista, e ciò che sorprende non è quindi che loro se ne freghino del know how novese, trasferendo la produzione in Turchia per risparmiare, o che al posto di una fabbrica storica che dava da mangiare a decine di famiglie vogliano edificare degli orrendi palazzoni guadagnando un sacco di soldi. A sorprendere sono semmai le parole che in questi mesi sono venute tanto dalle istituzioni quanto dal mondo sindacale, che hanno riempito di illusioni i lavoratori, e ancor di più i maldestri tentativi di salvare il transatlantico che imbarca acqua con dei secchielli da spiaggia. Il tentativo in extremis di blindare la fabbrica affinché la proprietà non possa più modificarne l’utilizzo, costringendola così in qualche modo a scelte diverse da quelle previste, suona infatti come una manovra più propagandistica che di sostanza, un tentativo disperato di salvare la faccia distogliendo l’attenzione da negligenze passate le quali sono dirette responsabili di quasi tutto ciò che sarebbe venuto dopo, chiusura dello stabilimento compresa. E che dunque i Toksoz siano più agguerriti che mai, vedendo un cambiamento di regole in corsa a loro completo svantaggio, è il minimo che ci si possa aspettare.
Il problema, lo si capisce bene, è a monte. Ed è un problema che deve essere affrontato primariamente a livello politico centrale. O si ha il coraggio di dotarsi di strumenti che consentano il risanamento delle aziende italiane decotte invece di svenderle allo straniero per poi lamentarsi che questi se ne freghi dell’Italia e degli italiani, oppure ci si troverà costantemente nella melma. E il perché è semplice: nel quadro attuale, vincoli molto stringenti per gli eventuali acquisitori non farebbero altro che allontanarli, col risultato che ad uno Stato impotente corrisponderebbe per giunta la mancata opportunità di far intervenire soggetti privati a salvataggio dell’azienda di turno. Che allora si voglia impedire agli stranieri di speculare sulle nostre aziende (il che è una volontà sacrosanta) senza però regolarsi affinché si possa fare a meno di loro in determinati casi, appare, non solo una presa in giro, ma addirittura demenziale. Come è demenziale credere che se i Toksoz dovessero avere la peggio a questo “round” (cosa che certo ci auguriamo, poiché stiamo dalla parte dei lavoratori), ciò significherebbe aver aperto un nuovo corso per il Paese come qualche politicante nostrano vorrebbe far intendere. Il che, invece, avverrà soltanto quando si smetterà di spacciare una mano di bianco alle pareti per un intervento strutturale su un edificio (l’Italia) che cola a picco.
La fine della Pernigotti era scontata meno che per sindacalisti e politici che hanno illuso i lavoratori
