IL CONSULENTE TEDESCO –
Un esperimento di fluidificazione del traffico, tentato senza successo per pochi mesi a Roma 40 anni fa, è riproponibile oggi con tecnologie più raffinate. È la nota ”Onda Verde”, cioè la successione sincronizzata del “verde” dei semafori dei due grandi viali (a senso unico) fiancheggianti il Tevere, in modo che in ciascuna direzione si possa mantenere una velocità costante, seppure piccola (erano possibili tre livelli) a seconda del flusso di traffico osservato in entrata. Il sistema forse è stato confermato a Parigi, dove il fiume è più largo, e altrove, ma è un fatto che per un buon risultato i due viali paralleli devono essere molto distanziati affinché le due serie di semafori possano essere del tutto indipendenti senza intasare le vie traverse, supposte a traffico basso; se invece i due viali (carreggiate) sono accostati e si vuole il “verde” simultaneo nelle due direzioni, gli attraversamenti, secondo calcoli miei, devono essere distanti oltre due km per una velocità di circa 50 km/h, situazione impossibile in una città: è per questo che a Milano si formano comitati contro le “gronde”, superstrade cittadine che spaccano in due quartieri che da secoli formavano un unico borgo. Ecco invece una possibile soluzione elementare: il maggior flusso di veicoli sui viali è di solito a turno in una delle due direzioni, per esempio verso il centro al mattino e verso l’uscita alla sera, e così basta realizzare l’ “onda verde” sul lato di volta in volta più trafficato (sacrificando un po’ l’altro). Rispetto agli anni ’60 i mezzi di controllo ci sarebbero, ma, come al solito, manca la volontà di fare. A livello di quartiere a Milano gli assessori della Moratti hanno sempre promesso, e spesso acquistato, nuovi e costosi “semafori intelligenti” (rileverebbero il flusso di traffico, sincronizzandosi automaticamente di conseguenza), ma anche gli assessori di Pisapia, come quelli della Moratti, non incominciano neanche a impostare il problema: aspetteranno di poter pagare un consulente tedesco, mentre il professore di fisica, magari in pensione, del più scalcinato Istituto Tecnico di Milano potrebbe risolvere (gratis) tutta la questione, che è una minima parte dell’intero problema.
LA BICI OLANDESE
Prima di trattare gli effetti del traffico congestionato sull’inquinamento (atmosferico), spendiamo due parole sul “business” dello “sharing” dei veicoli. 30 anni fa ho percorso centinaia di km sulle mostruose bici a noleggio olandesi, senza cambio di velocità, lungo rapporto, sella larga e dura (equivalente a 60 calci nel sedere al minuto), manubrio a manopole ripiegate nel senso di marcia (dolore ai polsi), telaio corto e alto, che impedisce di piegare la schiena in avanti (dolori a schiena e spalle) e mortiferi freni contropedale per blocco immediato della ruota posteriore e conseguente scivolata, con caduta, sul velo di sabbia che copre l’asfalto (alcuni di questi mezzi di tortura si vedono in circolazione anche a Milano e nelle città emiliane: in effetti fanno sembrare tutti molto più alti e aitanti). Per mitigare gli effetti collaterali, l’unica soluzione è procedere lentamente, con frequenti arresti della pedalata, e così fanno i mitici olandesi, additati ad esempio di grandi ciclisti da tutti gli ignari europei, passati dalla biciclettina a due rotelle laterali, direttamente al motociclo e al SUV. Aggiungiamo che fuori città gli olandesi in bici non si sognano di andare (anche a causa di improvvisi temporali o raffiche di vento), per cui è raro fare gite in compagnia da una città all’altra, che loro preferiscono fare in grosse e poco ecologiche Mercedes. Ma, dài e dài, la bici a noleggio da qualche anno ha raggiunto anche Milano, per fortuna in versione “civilizzata”: ruote piccole, cambio di velocità, freni a leva (in Olanda il vento abbatte le bici parcheggiate e le leve si tranciano), e anche cestino per la spesa; la “sciura”milanese si fa portare la spesa dal supermarket per “soli” 10 euro in più e facendo muovere un ingombrante furgone: nel cestino della bici lei mette solo i prodotti acquistati nel negozietto di fiducia o l’immancabile cagnetto. A breve si attendono bici a “pedalata assistita”, cioè con motorino elettrico nella pedaliera, per gli utenti più malconci o più coraggiosi (auspico limite di velocità di 20 km/h e casco obbligatorio). Il “sistema” non si chiama “bici a nolo”, per non far pensare che Milano sia quella Marittima, ma “bike-sharing”, per anglofila assonanza col “car-sharing”, di cui parleremo, paradossalmente nato prima. A oggi il “bike sharing” di Milano è praticamente gratuito per meno di mezz’ora di utilizzo, tanto è vero che tutti i milanesi (del centro e in buona salute) lo provano almeno una volta, ma poi si chiedono che cosa abbia di diverso dalla propria vecchia bici, se non lo sbattacchiamento impunito, le riparazioni gratuite e la protezione contro il furto (non è poco, per comodità e economia). Altro è il discorso per i pendolari, che arrivano alle varie stazioni di treni o Metro e poi con la biciclettina gialla impiegano pochi, ma proprio pochi, minuti in meno a raggiungere l’ufficio o il successivo mezzo pubblico; purché non trasportino qualcosa di ingombrante, cosa in teoria proibita, ma per ora tollerata dagli addetti alla sicurezza del traffico (non parlo dei poveretti che trasportano attrezzi da lavoro, tipo scala a pioli, seghe, spazzoloni, che dovrebbero essere gli unici con permesso di circolare in bici, perché non lo fanno certo per proprio divertimento). Per ora il bike-sharing a Milano ha portato solo un aumento di ciclisti indisciplinati (almeno tre su quattro viaggiano contromano e sui marciapiedi) in prossimità delle stazioni, e introiti modesti per il gestore, che infatti non misura il successo o il progresso dell’iniziativa in euro ma in “prelievi giornalieri”, che innegabilmente nei primi mesi sono stati in netto aumento. Non è noto per ora l’andamento dei furti e dei guasti, che invece a Parigi, per esempio, sono in continua preoccupante crescita. Ma mi si permetta un’osservazione sui “comunicatori”: telecronisti e giornalisti hanno osannato Vincenzo Nibali per la (meritata) vittoria al Tour de France e sono arrivati a lodarlo “per aver fatto conoscere all’Italiano pigro la bellezza del ciclismo”, auspicando che, sull’esempio di Nibali, migliaia di Italiani si dedicheranno con passione alla bicicletta (e ne è uscito anche il nome di Pantani, che, bravissimo ragazzo, per carità, faceva però uso, da solo o in compagnia, di una droga non propriamente da sportivi e da portare ad esmpio); gli stessi giornalisti direbbero allora che una vittoria di Alonso al G. P. di Monza indurrebbe gli Italiani a correre all’autodromo per provare l’ebbrezza dei 300 all’ora (e si schianterebbero finalmente tutti entro il primo kilometro). La realtà è che, Nibali o non Nibali, gli scassatissimi ciclisti e le rabbiose cicliste che circolano in bici in città procedono zigzagando, magari con una sola mano sul manubrio e l’altra, con cellulare, sull’orecchio; oppure, se procedono diritti, non tengono il terapeutico ritmo continuo di 60 pedalate al minuto (lo provino, e cambieranno opinione sul vero ciclismo consigliato dai medici, che del resto, personalmente, lo praticano poco), ingombrando la strada molto di più di un’automobile, specie se procedono affiancati, come fanno spesso i vigili urbani, che anche in questo caso danno il cattivo esempio. Un altro discorso riguarda i “veri” ciclisti, uomini e donne, che si fanno ogni domenica, spesso in ore antelucane, il giro della Brianza o del Varesotto su bici e con equipaggiamento sportivo (casco) ultramoderni e superefficienti: non importa se formano gruppi che a volte occupano mezza carreggiata, perché viaggiano a 40 all’ora e conoscono tutte le astuzie per non provocare incidenti, né importanti intoppi alla circolazione: seguire in macchina pazientemente gruppi di questo genere può essere addirittura un piacere, per non parlare della nostalgia di chi di una simile compagnia non riuscirebbe più a reggere il ritmo.
QUANDO I CICLISTI CREDONO DI AVER SEMPRE LA PRECEDENZA
Tornando ai pretesi ciclisti “da città”, si è già detto del procedere contromano e sui marciapiedi (a Milano si discute spudoratamente e incoscientemente sul rendere legale la marcia contromano per i ciclisti), non si è ancora detto dell’attraversamento fulmineo sulle strisce pedonali, con pretesa di precedenza, e del trasporto di grossi “shopper” appesi alle manopole del manubrio e pericolosamente oscillanti verso i raggi della ruota anteriore. Per chi non lo sapesse, la caduta in questo caso provoca la spiacevole rottura di una clavicola, ma in alcuni casi anche della scatola cranica. Insomma, piste ciclabili o no, il ciclista in città è un pericolo per sé e per il prossimo ed è un delinquente se trasporta un bambino, anche se su seggiolino “regolamentare” (non importa se dall’Olanda alla Svezia, passando per Germania e Danimarca, si vedono bambini trasportati su traballanti rimorchi dietro il biciclettone della mamma felice: delinquenti, come del resto è noto, esistono anche fra quei genitori, che vivono nei rudi ma “civilizzati” Paesi Nordici). Dimenticavo il meglio: quelli che in una mano tengono il guinzaglio di un cane “sportivo”, che nella sua quotidiana passeggiata trascina il padrone (o la padrona) deficiente che a piedi non riuscirebbe a tenere il suo passo.
IL MEZZO COMUNE
Altro è il “car-sharing”, che sarebbe un vero “business”economico se, a Milano e nelle altre maggiori città, non fossero state concesse licenze a troppe compagnie, alimentando una concorrenza eccessiva: dall’11 luglio solo a Milano ce ne sono tre private e due (zoppicanti) pubbliche; e, intanto che ci sono, si consorziano fra loro le compagnie e ottengono di circolare anche in città diverse, con regole il più possibile simili (per esempio libero accesso ai centri storici, parcheggio consentito ovunque, uso delle corsie preferenziali). Dal punto di vista della “mobilità” quindi non si è fatto altro che aumentare la quantità di veicoli in circolazione, anche nella sempre più affollata “area C” di Milano, che tanto ha fatto e fa discutere: a oggi il car-sharing di Milano conta 1500 veicoli privati, in crescita, quasi tutti a benzina, che riducono il già misero spazio per la sosta, dato che tutte le auto a nolo usano gratuitamente, quasi fossero guidate da handicappati, tutte le aree di parcheggio disponibili. Dal punto di vista della praticità per l’utente, si conta sulla sua fortuna: se vuole spendere poco, infatti, l’utente deve bloccare il tempo di utilizzo, cioè rinunciare alla macchina, ogni volta che si ferma, e quindi, ripartendo, è costretto a fare una nuova ricerca (che può significare molta distanza e molto tempo). Se invece vuole tenere la macchina a disposizione nel luogo dove l’ha lasciata, deve pagare l’intera tariffa di utilizzo anche quando la macchina è in sosta. Dato che gli utenti abituali di questo servizio sono per lo più professionisti o, peggio, personaggi danarosi dalla dubbia attività (a cui piace anche farsi passare per accaniti ambientalisti), certamente non esiteranno a trattenere la macchina nel luogo più comodo per loro e non baderanno a spese. Il vantaggio che ne trae l’”ambiente” è nullo, ma è certo che qualcuno ci guadagna in “moneta”, ma come al solito non è il comune cittadino. I tassisti, intervistati, non si preoccupano (altra cosa è UBER…) e sono certi che il fenomeno “car-sharing” si estinguerà senza danni per loro, che comunque hanno sempre la risorsa di aumentare le tariffe, che a Milano sono già insostenibili e vergognose.
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