Novi nel 1392 fu donata da Gian Galeazzo Visconti al doge di Genova, Antoniotto Adorno che, tre anni dopo, la cedette al re di Francia. Ritornata sotto Genova, il doge Pietro Fregoso (che, nel 1458, vendette Genova alla Francia) si riservò il dominio della città che rimase sotto ai Fregoso sino al 1528, tornando, in seguito, a Genova, della quale seguì le sorti anche dopo il successo della rivoluzione francese. Sotto il governo genovese, faceva parte del dominio montano denominato Oltregiogo, governato da un Capitano, in rappresentanza della Repubblica. Il primo documento relativo ad una presenza ebraica a Novi risale al 1447, quando il doge Giano di Campofregoso concesse a Joxeph Judeo, habitatori in terra Novarum, un salvacondotto valido per Genova e Savona. Poco dopo, il doge rinnovò delle concessioni (a quanto si inferisce, date in precedenza) a Manasse de Alemannia e al figlio Yosef, presumibilmente, circa un banco di pegni. Da un documento dello stesso anno si apprende che Yosef di Manasse aveva qui dei crediti nei confronti di Jacob, ebreo savonese, e che il governatore di Savona aveva ricevuto ordine di sollecitare il debitore a saldare. Due anni più tardi, Manasse ed il figlio ebbero il permesso di stabilirsi a Genova, insieme ai soci ed ai familiari. È nuovamente attestata la presenza ebraica a Novi, dopo più di venticinque anni di silenzio, in un documento del 1475 che menziona Bonaventura del fu Anselmo da Novi, mentre sappiamo che, passati altri ventitré anni, Margherita, ebrea convertita di undici anni, era stata venduta da Teramo di Orerio a Simone da Novi (forse un ebreo) per 20 palmi di velluto nero doppio. Secondo la testimonianza di Yosef Ha-Kohen, risalente all’incirca al primo decennio del XVI secolo, un’accusa di omicidio rituale, nel periodo precedente la Pasqua ebraica, turbò per qualche giorno la vita del nucleo ebraico di Novi, sino al ritrovamento della presunta vittima, sana e salva. Dopo la cacciata degli ebrei da Genova del 1516, Ha-Kohen si stabilì a Novi con la moglie Paloma e vi seppellì il suocero, il celebre rabbino Avrahm Ha-Kohen, morto nel 1519. Nel 1533 alcune registrazioni attestavano il pagamento delle tasse alla Repubblica genovese da parte degli ebrei di Novi, menzionandone uno in particolare, di nome Mosè. Cinque anni dopo, Mosè di Novi si rivolse al Senato perché componesse una vertenza che aveva con Caterina di Novi, moglie di Alfonso Trotta, circa alcune mine di grano ed una cifra di denaro che Caterina doveva a Belleta, sua suocera. Nel 1540 Yosef Ha-Kohen e Giovanni Francesco Lavagnino, un convertito, tradussero dall’ebraico, di fronte a Francesco De Conversis di Correggio che rappresentava il podestà di Genova, il contratto nuziale, stipulato a Novi “nel tertio giorno de la luna de Tevet de l’anno 5277 dala creatione del mundo”, in cui venivano menzionati svariati ebrei, tra cui Moisè De Contio, figlio del fu Giuseppe di Novi. Nello stesso anno, il medico Yosef Habendavid, del fu Magister rabbino Aron, cognato di Yosef Ha-Kohen (di cui aveva sposato la sorella Clara), chiese nel proprio testamento di essere sepolto nel cimitero di Novi “ubi sepeliuntur cadavera hebreorum”, mentre le orazioni in suffragio della sua anima avrebbero dovuto essere recitate per un anno nelle sinagoghe di Mantova e di Bologna. Nel 1544 il Senato concesse un salvacondotto annuale a Mosè, del fu Giuseppe, e a Peres Sacerdote, del fu Matassia, per risiedere a Novi, mentre, tre anni più tardi, Pietro del fu Neptanelis di Trino e Mosè de Rivolta ebbero un salvacondotto per stare e commerciare a proprio libito a Novi. Nel 1549 il medico Yosef Sacerdote, figlio del fu Yehoshua, nominò Pietro, ancora residente in città, suo procuratore per riscuotere soldi, beni e mercanzie da due abitanti di Castelletto d’Orba. L’ipotesi che a Novi si fosse formata una comunità ebraica di una certa entità è corroborata dall’affermazione di tale Vito della stirpe di Yehudah che, nel 1550 circa, chiese l’autorizzazione a trasferirsi qui per motivi d’affari sostenendo che nella località già altre volte ebbero stanza li suoi maggiori e ancora oggi hanno i loro sepolcri. Una quindicina di anni dopo, Vito Levi scrisse ai Serenissimi Signori riferendo che gli ebrei di Novi e di Gavi che gestivano i banchi di pegno, avevano rifiutato il danaro offerto da altri correligionari, che avrebbero voluto lavorare in tali località. Vito si offrì di controllare i registri contabili in ebraico, per verificare se le tasse pagate dai feneratori fossero proporzionali ai guadagni. Nel 1568 i cittadini di Novi chiesero che Manuele Levita, che doveva abbandonare Serravalle, si trasferisse lì con la famiglia, in virtù all’aiuto che avrebbe potuto recare ai poveri, costretti, altrimenti, a recarsi ad Alessandria, Pavia e Capriata, dove erano obbligati a pagare un interesse più alto. Manuele (Emanuele), considerato uomo da bene e compassionevole, dai membri del Consiglio di Novi, fu autorizzato dal Senato a vivervi con la famiglia per un anno. Dalla condotta tra il Comune ed Emanuele Levita risulta che l’interesse per i prestiti su pegno ammontava a 6 denari per lira al mese per gli abitanti di Novi e del circondario, mentre era vietato ai novesi portare pegni ad Emanuele da parte di forestieri. Da un documento dell’anno successivo risulta che tale Guglielmo di Novi, ormai defunto, si era convertito in precedenza (senza indicazione di data) e che il suo lascito testamentario prevedeva una cifra annuale da distribuirsi dall’Ufficio di Misericordia. Nel 1570 la popolazione di Novi chiese al Doge ed ai Governatori di non autorizzare altri ebrei a venire in città per non interferire nelle attività di Emanuele Levita che vi risiedeva da due anni, aiutando la popolazione e rendendo buon servizio alla comunità, alla quale aveva prestato 500 scudi, senza interesse, per tre anni. L’anno successivo, tuttavia, dato che Emanuele non poteva far fronte da solo ai bisogni della popolazione, i cittadini chiesero al Senato di autorizzare a venire a Novi Lazzarino Poggetto di Asti che avrebbe abitato a casa del Levita e che aveva già aiutato i bisognosi durante la carestia. Da una lettera, scritta nel 1572, dal Doge e dai Governatori al podestà di Novi, vediamo che alcuni cristiani avevano aiutato la popolazione con derrate alimentari, traendone eccessivi profitti. Da una lettera dello stesso tenore indirizzata al podestà di Voltaggio, risulta che tali profitti erano decisamente maggiori di quelli degli ebrei. L’anno dopo, tuttavia, il podestà di Novi domandò al Doge ed ai Governatori di emettere una grida per obbligare l’ebreo locale a portare il segno distintivo giallo, dietro pena di multa. Da un documento del 1578 risulta che i prestatori, che avevano gestito il locale banco dei pegni nel corso degli anni, erano stati Emanuele Levita, Moisè Treves e Lazzarino e Vita Poggetto. Nello stesso anno, il Senato decretò che l’ebreo che viveva a Novi avrebbe potuto rimanervi per cinque anni, prestando a 4 denari per lira al mese, come sancito negli accordi tra lui e il Comune. Nel 1579 Fabio Treves inviò da Novi una petizione al Doge e ai Governatori chiedendo di proteggere i figli del defunto fratello, Mosè, dalle pretese di Vita Poggetto e di Lazzarino, che aveva gestito il banco locale con Mosè. Da un atto del 1581 si apprende che Francesco Doria, in qualità di Commissario di Novi, avrebbe esatto “uno scudo per ogni testa di hebreo” dimorante allora nella località. Dal 1582 Vita Poggetto fu autorizzato a vivere, lavorare e fare affari a Novi, Gavi e Ovada. Nel 1587 gli israeliti novesi ebbero ordine da parte delle autorità genovesi, tramite i Giusdicenti dell’Oltregiogo, di portare il segno distintivo giallo o lasciare la località entro due mesi. Poco dopo, in seguito alle loro proteste, furono introdotte limitazioni all’obbligo del segno, riguardanti i maschi di età inferiore ai 12 anni e le figlie femmine, purché uscissero accompagnate dalla madre, munita di segno. In viaggio gli ebrei non sarebbero stati obbligati al segno e neppure per i primi quattro giorni di soggiorno in un luogo nuovo: chiunque li avesse molestati, a causa del segno, sarebbe stato punito con dodici staffilate in pubblico, se minore di 12 anni, e con ammende pecuniarie, se di età superiore. In un documento del 1592, accanto a Vita del fu Lazzarino Poggetto, compariva, come residente in città, Abraham Artom. I due avevano ricevuto segale e denaro da cristiani, con cui si impegnavano a saldare i loro debiti. Nel 1592 un decreto del Senato, indirizzato ai podestà di alcune località, tra cui Novi, stabiliva che gli ebrei avrebbero dovuto lasciare il Dominio entro tre mesi, pena l’arresto e la confisca dei beni. Tuttavia, l’anno seguente il Doge e i Governatori permisero a Vita Poggetto ed ai suoi agenti di continuare a vivere qui e ad Ovada, a determinate condizioni, tra cui il segno distintivo e l’obbligo di tenere i libri contabili in italiano. Nel gennaio 1598 l’ordine di espulsione, decretato da Genova, fu ricevuto in una serie di centri, tra cui Novi: Vita Poggetto reagì con una petizione, cui fece seguito la richiesta del Senato per avere informazioni sulla sua buona condotta e sulle sue proprietà, estendendogli, allo stesso tempo, il permesso di restare a Novi per tutto il mese di febbraio. L’anno seguente, il sindaco di Novi inviò una petizione a Genova in favore di Vita Poggetto e dei suoi agenti, per farli restare per altri sei anni, con eventuali ulteriori due anni di soggiorno, per condurre a termine gli affari intrapresi. Le autorità genovesi ordinarono, pertanto, che venissero dati quattro giorni di tempo per permettere agli abitanti di esprimere il loro eventuale dissenso. La stessa procedura fu richiesta per l’agente del Poggetto, Abraham Artom. Tuttavia, fu concessa solo una proroga del permesso di residenza a Novi, per cui, in vista della scadenza, il sindaco chiese un’ulteriore proroga, ricordando al Senato il lungo servizio reso dai Poggetto, sempre ben visti, amati, anche desiderati: dato che tutti i cittadini si erano dichiarati favorevoli alla presenza del Poggetto e dei suoi agenti, il Senato concesse loro un periodo di residenza di sei mesi. Nel 1603 Abraham Artom, ormai a Tassarolo, ricevette un salvacondotto per recarsi a Novi (e, se necessario, anche a Genova) per riscuotervi i crediti, purché portasse un cappello rosso durante il viaggio nel distretto di Novi e non esercitasse l’attività creditizia entro i confini del Dominio. Nel 1678 nei documenti del Capitano di Novi compariva una prigioniera ebrea, condannata dal Santo Uffizio alla fustigazione come falsaria e vagabonda. Nel 1714 viveva a Novi Emanuele Lattes, presumibilmente per interessi economici, dato che aveva come procuratore Salomone Gubbia, che era anche procuratore a Marsiglia di Samuel Enriques, uomo d’affari algerino.
Gli ebrei novesi e l’attività finanziaria
