Tortona (Andrea Guenna) – Sono più di trecento i migranti ospiti in hotel o in strutture confortevoli. Più che migranti sono villeggianti senza famiglia, che è rimasta a casa. Ci dicono che scappano dalla guerra. Può darsi, ma allora perché non hanno messo in salvo anche i loro familiari che sono rimasti nella bolgia e se la sono data a gambe? Se è così, oltre che essere in gran parte clandestini e fannulloni, sono anche dei vigliacchi. Ma quello che non si capisce è come mai per loro, che con noi italiani non hanno niente in comune (e lasciamo perdere l’insopportabile buonismo dei preti e dei compagni), è stato riservato un trattamento di favore, confortevolmente sistemati, accuditi, perfino pagati. Ben altro era stato il trattamento riservato ai nostri fratelli istriani e dalmati che dopo la fine della seconda guerra mondiale, braccati dai comunisti di Tito, hanno creduto di potersi rifugiare in Patria convinti che sarebbero stati accolti da fratelli. E invece no, perché i comunisti, al loro arrivo alla stazione ferroviaria di Tortona, a partire dall’estate del 1945 fino a tutto il 1948 (quindi non si tratta d’un fatto sporadico ma ripetuto nel tempo, quindi pianificato dal Partito), li hanno fatti oggetto di sputi, di percosse, di insulti e loro, i nostri fratelli istriani e dalmati, si sono dovuti rifugiare nelle canoniche delle chiese e nelle camerate dell’allora caserma Passalacqua. Ma l’”accoglienza” dei trinariciuti seguaci dei compagni Togliatti e Longo riservata ai “fratelli” italiani che fuggivano dalle atrocità comuniste del compagno Tito (Foibe ed altro) era iniziata già al confine con l’Italia.
Come bene ricorda il professor Stefano Zecchi, di famiglia istriana e di madre ebrea, quando ha visto arrivare i profughi a Trieste, dove era già arrivato con la famiglia, a molti anni dalla fine della guerra (l’esodo è durato circa dieci anni) è stato testimone di fatti vergognosi. Ecco cosa scrive nel suo romanzo sugli esuli istriani dal titolo “Quando ci batteva forte il cuore” edito da Mondadori: “Una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mensa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano. Da un lato della strada un gruppo gridava: fuori i fascisti da Trieste, viva il comunismo e la libertà; sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti”. Racconta così Stefano, il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria. Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947, l’Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistra non conobbe la parola accoglienza. Tutt’altro. Si scagliò con rabbia e ferocia contro quei “clandestini” che avevano osato lasciare il paradiso comunista. Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. I comunisti li aspettavano ovunque al varco. Erano piazzati nei porti di Bari e Venezia, pronti a dedicargli insulti, fischi e sputi. Nel capoluogo emiliano, per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero.
La sinistra italiana che di quella storia è figlia legittima, dimentica tutto questo. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l’Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l’accoglienza dello straniero di colore che considera un fratello. Quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza.
Scrive ancora Zecchi: “Sono comunisti. Gridano ‘fascisti’ a quella povera gente che scende dalla motonave (…). Urlano di ritornare da dove sono venuti”. E non sono le parole di Matteo Salvini. “Tornate da dove siete venuti” era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D’Alema, Berlinguer, Veltroni e Bersani.
Fate bene attenzione a cosa si leggeva nell’Unità del 30 novembre 1946: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi”.
Quei pezzi di merda di comunisti (perché i trinariciuti ci sono sempre, occhio) oggi invocano l’asilo per tutti. Si commuovono (giustamente ma incomprensibilmente) per la foto del bambino riverso sulla spiaggia. La pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciarono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, riservarono solo odio. Lo stesso che li costrinse a nascondere gli orrori delle Foibe.
E Zecchi amaramente conclude: “Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia”.
Sindaco Bardone, tenga duro, siamo con lei.
Nel dopoguerra ai profughi istriani i tortonesi hanno riservato sputi e insulti, oggi ai migranti africani ospitalità gratuita in hotel a cinque stelle
