Il Capitale: Libro I – Sezione I: Merce e Denaro – Capitolo 1: La Merce
3. LA FORMA DI VALORE OSSIA IL VALORE DI SCAMBIO.
Le merci vengono al mondo in forma di valori d’uso o corpi di merci, conte ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga. Tuttavia esse sono merci soltanto perché sono qualcosa di duplice: oggetti d’uso e contemporaneamente depositari di valore. Quindi si presentano come merci oppure posseggono la forma di merci soltanto in quanto posseggono una duplice forma: la forma naturale e la forma di valore. L’oggettività del valore delle merci si distingue da Mrs. Quickly perché non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all’oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell’oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest’ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale fra merce e merce. Di fatto noi siamo partiti dal valore di scambio o dal rapporto di interscambio delle merci, per poter trovare le tracce del loro valore ivi nascosto. Ora dobbiamo ritornare a questa forma fenomenica del valore.
Ognuno sa, anche se non sa nient’altro, che le merci posseggono una forma di valore, che contrasta in maniera spiccatissima con le variopinte forme naturali dei loro valori d’uso, e comune a tutte: la forma di denaro. Ma qui si tratta di compiere un’impresa che non è neppure stata tentata dall’economia borghese: cioè di dimostrare la genesi di questa forma di denaro, dunque di perseguire lo svolgimento dell’espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci, dalla sua figura più semplice e inappariscente, fino all’abbagliante forma di denaro. Con ciò scomparirà anche l’enigma del denaro. Il rapporto di valore più semplice è evidentemente il rapporto di valore d’una merce con un’unica merce di genere differente, qualunque essa sia. Il rapporto di valore fra due merci ci fornisce dunque la più semplice espressione di valore per una merce.
A) FORMA DI VALORE SEMPLICE, SINGOLA OSSIA ACCIDENTALE.
x merce A = y merce B
oppure:
x merce A vale y merce B
(20 m di tela = n.1 abito oppure: 20 m di tela hanno il valore di n.1 abito).
- A1. I due poli dell’espressione di valore: forma relativa di valore e forma di equivalente.
L’arcano di ogni forma di valore sta in questa forma semplice di valore. La vera e propria difficoltà sta dunque nell’analisi di essa.
Qui, due merci di genere differente, A e B, nel nostro esempio tela e abito, rappresentano evidentemente due parti differenti. La tela esprime il proprio valore nell’abito, l’abito serve da materiale di questa espressione di valore. La prima merce rappresenta una parte attiva, la seconda una parte passiva. Il valore della prima merce è rappresentato come valore relativo ossia quella merce si trova in forma relativa di valore. La seconda merce funziona come equivalente ossia essa si trova in forma di equivalente.
Forma relativa di valore e forma di equivalente sono momenti pertinenti l’uno all’altro, l’uno dei quali è condizione dell’altro, inseparabili, ma allo stesso tempo sono estremi che si escludono l’un l’altro ossia opposti, sono cioè poli della stessa espressione di valore; essi si distribuiscono sempre sulle differenti merci che l’espressione di valore riferisce l’una all’altra. Per esempio io non posso esprimere in tela il valore della tela. Venti metri di tela = venti metri di tela non è una espressione di valore; anzi, tale equazione dice, al contrario, che venti metri di tela non sono altro che venti metri di tela, una quantità determinata dell’oggetto d’uso tela. Il valore della tela può dunque essere espresso solo relativamente, cioè in altra merce. La forma di valore relativa della tela presuppone quindi che una qualsiasi altra merce si trovi in confronto ad essa nella forma di equivalente. D’altra parte, quest’altra merce che figura come equivalente, non si può trovare contemporaneamente in forma relativa di valore. Non è essa ad esprimere il suo valore. Essa fornisce soltanto il materiale all’espressione di valore di un’altra merce.
Certo, l’espressione: 20 m di tela = 1 abito, oppure 20 m di tela valgono 1 abito, implica anche la reciproca: 1 abito = 20 m di tela oppure: 1 abito vale 20 m di tela. Ma per far ciò devo per l’appunto invertire l’equazione, per esprimere relativamente il valore dell’abito; e appena ho fatto questo, la tela diventa equivalente al posto dell’abito. Dunque la stessa merce non può presentarsi simultaneamente nelle due forme nella stessa espressione di valore. Anzi, queste forme si escludono polarmente.
Ora, che una merce si trovi in forma relativa di valore o nella forma opposta di equivalente dipende esclusivamente dalla posizione ch’essa ha di volta in volta nell’espressione di valore, cioè dal fatto che essa sia la merce della quale si esprime un valore oppure la merce nella quale si esprime un valore. - A2. La forma relativa di valore.
a) Contenuto della forma relativa di valore.
Per scoprire come l’espressione semplice di valore di una merce stia nel rapporto di valore fra due merci si deve in primo luogo considerare tale rapporto in piena indipendenza dal suo aspetto quantitativo. Per lo più si procede proprio all’inverso e si vede nel rapporto di valore soltanto la proporzione nella quale determinate quantità di due specie di merci si equivalgono l’una con l’altra. Non si tiene conto del fatto che le grandezze di cose differenti, diventano confrontabili quantitativamente soltanto dopo che è avvenuta la loro riduzione alla stessa unità. Sono grandezze dello stesso denominatore e quindi commensurabili soltanto come espressioni della stessa unità.
Che 20 m di tela siano = 1 abito, o siano = 20 abiti o = x abiti, cioè, che una data quantità di tela valga molti o pochi abiti, ogni proporzione di questo genere implica sempre che tela e abiti come grandezze di valore siano espressioni della stessa unità, cose della stessa natura. Tela = abito è il fondamento dell’equazione.
Ma le due merci qualitativamente equiparate l’una all’altra non rappresentano la stessa parte. Viene espresso solo il valore della tela. E come? Mediante il suo riferimento all’abito come suo ” equivalente “, ossia ” cosa scambiabile ” con essa. In questo rapporto l’abito conta come forma d’esistenza di valore, come cosa di valore, poiché solo come tale esso è eguale alla tela. Dall’altra parte il proprio esser valore della tela viene in luce ossia riceve una propria espressione autonoma, poiché solo come valore essa è riferibile all’abito come qualcosa di valore identico ossia scambiabile con essa. Allo stesso modo l’acido butirrico è un corpo differente dal formiato di propile. Ma l’uno e l’altro consistono degli stessi elementi chimici: carbonio (C), idrogeno (H) e ossigeno (0), e inoltre nella stessa composizione percentuale C4H8O2.. Ora, se identificassimo il formiato di propile con l’acido butirrico, in questo rapporto il formiato di propile varrebbe in primo luogo soltanto come forma di esistenza di C4H8O2, e in secondo luogo si verrebbe a dire che anche l’acido butirrico consiste di C4H8O2,. Con l’identificazione del formiato di propile con l’acido butirrico si sarebbe dunque espressa la loro sostanza chimica, distinguendola dalla loro forma fisica.
Se diciamo: come valori, le merci sono semplici cristallizzazioni di lavoro umano, l’analisi che ne facciamo le riduce all’astrazione valore, ma non dà loro nessuna forma di valore differente dalle loro forme naturali. Altrimenti stanno le cose nel rapporto di valore d’una merce con l’altra. Il suo carattere di valore spicca in tal caso per la sua relazione con l’altra merce.
Per esempio, facendo dell’abito, come cosa di valore, l’equivalente della tela, il lavoro inerente all’abito viene posto come equivalente al lavoro inerente alla tela. E’ vero che l’arte della sartoria che fa l’abito è un lavoro concreto di genere differente da quella della tessitura che fa la tela. Ma l’equiparazione alla tessitura riduce effettivamente la sartoria a quello che realmente è eguale nei due lavori: al loro carattere comune di lavoro umano. E con questa perifrasi si è detto che neppure la tessitura, in quanto tesse valore. possiede note distintive che la differenzino dalla sartoria, e che dunque è lavoro astrattamente umano. Solo l’espressione di equivalenza fra merci di genere differente mette in luce il carattere specifico del lavoro creatore di valore, in quanto riduce effettivamente i lavori di genere differente inerenti alle merci di genere differente, a ciò che è loro comune, a lavoro umano in genere17a.
Tuttavia non basta esprimere il carattere specifico del lavoro nel quale consiste il valore della tela. Forza – lavoro umana allo stato fluido, ossia lavoro umano, crea valore, ma non è valore. Diventa valore allo stato coagulato, nella forma oggettiva. Per esprimere il valore della tela come coagulo di lavoro umano, esso deve essere espresso come una ” oggettività ” la quale, come cosa, sia differente dalla tela e, simultaneamente, le sia comune con altra merce. Il problema è già risolto.
Nel rapporto di valore colla tela l’abito conta come qualitativamente eguale ad essa, come cosa della stessa natura, perché è un valore. Quindi l’abito conta qui come una cosa nella quale si presenta valore, ossia come cosa che rappresenta valore nella sua forma fisica tangibile. E l’abito, il corpo della merce abito, è d’altronde soltanto un valore d’uso. Un abito esprime tanto poco valore quanto il primo pezzo di tela che capiti fra le mani. Questo prova soltanto che l’abito, entro il rapporto di valore con la tela, significa di più che fuori del rapporto stesso, come tanti uomini entro un abito gallonato significano di più che fuori dell’abito.
Nella produzione dell’abito è stata spesa effettivamente forza lavoro umana in forma di sartoria. Dunque in esso è accumulato lavoro umano. Da questo lato l’abito è “depositario di valore”, benché questa sua qualità non faccia capolino neppure quando l’abito sia arrivato, per il consumo, ad essere quasi tra. sparente. E nel rapporto di valore della tela, l’abito conta solo da questo lato, e quindi come lavoro incorporato, come corpo di valore. Nonostante che si presenti tutto abbottonato, la tela ha riconosciuto in lui la bell’anima affine del valore. L’abito però non può rappresentare valore nei confronti della tela, senza che per questa, simultaneamente, il valore assuma la forma di un abito. Così l’individuo A non si può comportare con l’individuo B come con una maestà, senza che per A la maestà assuma simultaneamente la forma corporea di B; e quindi la maestà cambi tratti del viso, capigliatura e molto altro ancora secondo il padre della patria del momento.
Dunque, nel rapporto di valore, nel quale l’abito costituisce l’equivalente della tela, la forma di abito conta come forma di valore. Il valore della merce tela viene dunque espresso nel corpo della merce abito, il valore d’una merce viene espresso nel valore d’uso dell’altra merce. Come valore d’uso la tela è una cosa sensibile e differente dall’abito, come valore è ” eguale ad abito ” e ha quindi aspetto di abito. Così riceve una forma di valore differente dalla sua forma naturale. Il suo esser valore si presenta nella sua eguaglianza con l’abito, come la natura pecorina del cristiano nella sua eguaglianza con l’agnello di Dio.
Vediamo dunque che tutto quello che prima ci ha detto l’analisi del valore della merce ce lo dice ora la tela stessa, appena entra in comunicazione con un’altra merce, l’abito. Solo che essa ci rivela i suoi pensieri nell’unico linguaggio che le sia accessibile, il linguaggio delle merci. Per dire che il lavoro nella sua qualità astratta di lavoro umano costituisce il suo proprio valore, dice che l’abito, in quanto equivale ad essa, cioè in quanto è valore, consiste dello stesso lavoro che la tela. Per dire che la sua oggettività sublime di valore è differente dal suo corpo di traliccio, essa dice che il valore ha l’aspetto d’un abito e che quindi essa stessa, la tela, come cosa di valore, assomiglia all’abito come un uovo ad un altro uovo. Osserviamo di passaggio che anche il linguaggio delle merci ha molti altri dialetti, più o meno corretti, oltre l’ebraico. Per esempio la parola tedesca Wertsein esprime il fatto che il porre l’equazione della merce A con la merce B è l’espressione propria di valore della merce A, in maniera meno spiccata che il verbo romanzo valere, valer, valoir. Paris vaut bien une messe!
Dunque mediante il rapporto di valore la forma naturale della merce B diventa forma di valore della merce A, ossia il corpo della merce B diventa lo specchio di valore della merce A.
La merce A, riferendosi alla merce B come corpo di valore, come materializzazione di lavoro umano, fa del valore d’uso B materiale della sua propria espressione di valore. Il valore della merce A, così espresso nel valore d’uso della merce B, ha la forma del valore relativo.
b) Determinatezza quantitativa della forma relativa di valore.
Ogni merce della quale si debba esprimere il valore è un oggetto d’uso di quantità data: 15 moggia di grano, cento kg di caffè, ecc. Questa quantità data di merce contiene una determinata quantità di lavoro umano. La forma di valore non deve dunque esprimere soltanto valore in generale, ma valore determinato quantitativamente, ossia grandezza di valore. Nel rapporto di valore della merce A con la merce B, della tela con l’abito, non solo il genere di merce abito, come corpo di valore in generale, viene equiparato qualitativamente alla tela, ma ad una determinata quantità di tela, per esempio venti metri, viene equiparata una quantità determinata del corpo di valore, ossia dell’equivalente, per esempio un abito.
L’equazione: ” 20 m di tela = 1 abito, ossia: 20 m di tela valgono 1 abito “, presuppone che in un abito sia incorporata esattamente tanta sostanza di valore quanta in 20 m di tela, che cioè entrambe le quantità di merci costino la stessa quantità di lavoro, ossia tempo di lavoro della stessa misura. Il tempo di lavoro necessario per la produzione di venti metri di tela o di un abito varia con ogni variazione della forza produttiva della tessitura o della sartoria. Indagheremo ora più da vicino l’influsso di tali variazioni sull’espressione relativa della grandezza di valore.
I. Il valore della tela sia variabile, mentre il valore dell’abito rimane costante. Se raddoppia il tempo di lavoro necessario per la produzione della tela, per esempio in seguito ad un aumento di sterilità dei terreni coltivati a lino, raddoppia il valore della tela. Invece di
20 m di tela = n 1 abito,
avremmo
20 m di tela = n 2 abiti,
poiché un abito ora contiene soltanto la metà del tempo di lavoro contenuto in 20 m di tela. Se invece il tempo di lavoro necessario per la produzione della tela diminuisce di metà, per esempio in seguito a perfezionamenti dei telai, allora il valore della tela diminuisce di metà. Di conseguenza, ora si avrebbero
20 m di tela = ½ abito.
Il valore relativo della merce A, cioè il suo valore espresso in merce B, sale e scende in rapporto diretto con il valore della merce A, fermo rimanendo il valore della merce B.
II. Rimanga costante il valore della tela, sia invece variabile il valore dell’abito. In questa circostanza, se il tempo di lavoro necessario alla produzione dell’abito raddoppia, per esempio in seguito a una tosatura sfavorevole, invece di:
20 m di tela = n 1 abito,
ora abbiamo
20 m di tela = 1/2 abito.
Se invece il valore dell’abito scende a metà, allora:
20 m di tela = n 2 abiti.
Rimanendo costante il valore della merce A, il suo valore relativo espresso in merce B, sale o scende, quindi, in rapporto inverso alla variazione del valore di B.
Se si confrontano i vari casi di I e II, ne deriva che la stessa variazione di grandezza del valore relativo può sorgere da cause del tutto opposte. Così da:
20 m di tela = n 1 abito
proviene:
l – l’equazione 20 m di tela = n 2 abiti, o perché raddoppia il valore della tela o perché cala di metà il valore degli abiti, e
2 – l’equazione: 20 m di tela = ½ abito, o perché il valore della tela cala di metà o perché il valore degli abiti raddoppia.
III. Le quantità di lavoro necessarie alla produzione della tela e dell’abito possono variare simultaneamente, nella stessa direzione e nella stessa proporzione. In questo caso, 20 m di tela = n 1 abito prima e dopo, quali si siano le variazioni dei loro valori. La loro variazione di valore si scopre appena si confrontano con una terza merce il cui valore sia rimasto costante. Se i valori di tutte le merci salissero o cadessero simultaneamente e nella stessa proporzione, i loro valori relativi rimarrebbero inalterati. La loro variazione reale di valore si desumerebbe dal fatto che allora nello stesso tempo di lavoro si fornirebbe in generale una quantità di merci maggiore o minore di prima.
IV. I tempi di lavoro necessari alla produzione della tela e rispettivamente dell’abito, e quindi i loro valori, possono variare simultaneamente nella stessa direzione, ma in grado diseguale, oppure possono variare in direzioni opposte, ecc.. L’effetto di tutte le possibili combinazioni di questo tipo sul valore relativo di una merce risulta semplicemente dall’applicazione dei casi I, II, III.
Dunque, le variazioni reali della grandezza di valore non si rispecchiano né esaurientemente né inequivocabilmente nella loro espressione relativa, ossia nella grandezza del valore relativo. Il valore relativo di una merce può variare, benché il suo valore rimanga costante. Il suo valore relativo può rimanere costante, benché il suo valore vari; ed infine, non è affatto necessario che variazioni simultanee nella sua grandezza di valore e nell’espressione relativa di tale grandezza di valore coincidano esattamente. - A3. La forma di equivalente.
Abbiamo veduto che una merce A (la tela), esprimendo il proprio valore nel valore d’uso d’una merce B (l’abito) di genere differente, imprime a quest’ultima anche una peculiare forma di valore, quella dell’equivalente. La merce tela mette in luce il proprio esser valore per il fatto che l’abito, senza assumere una forma di valore differente dalla sua forma di corpo, le equivale. Dunque la tela esprime effettivamente il suo proprio esser valore per il fatto che l’abito è immediatamente scambiabile con essa.
La forma di equivalente di una merce è di conseguenza la forma della sua immediata scambiabilità con altra merce.
Se un genere di merci, come abiti, serve di equivalente ad altro genere di merci, come tela, e quindi gli abiti ricevono la proprietà caratteristica di trovarsi in forma immediatamente scambiabile con la tela, questo non vuol. dire affatto che sia data in qualche modo la proporzione nella quale abiti e tela sono interscambiabili. Questa proporzione, poiché la grandezza di valore della tela è data, dipende dalla grandezza di valore degli abiti. Che l’abito sia espresso come equivalente e la tela come valore relativo, o viceversa la tela come equivalente e l’abito come valore relativo, la sua grandezza di valore rimane determinata, prima e poi, dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione, quindi è determinata in maniera indipendente dalla sua forma di valore. Ma appena il genere di merci abito prende nell’espressione di valore il posto dell’equivalente, la sua grandezza di valore non riceve nessuna espressione come grandezza di valore; ma figura anzi nell’equazione di valore solo come quantità determinata di una cosa.
Per esempio: 40 m di tela valgono – che cosa? n 2 abiti. Poiché il genere di merci abito qui rappresenta la parte dell’equivalente, perché il valore d’uso abito conta come corpo di valore in confronto alla tela, basterà una determinata quantità di abiti per esprimere una determinata quantità di valore di tela. Due abiti possono quindi esprimere la grandezza di valore di quaranta metri di tela, ma non possono mai esprimere la loro propria grandezza di valore, la grandezza di valore di abiti. La comprensione superficiale del dato di fatto che l’equivalente possiede nell’equazione di valore sempre e soltanto la forma di una quantità semplice di una cosa. d’un valore d’uso, ha fuorviato il Bailey come molti suoi predecessori e successori, facendo loro vedere nell’espressione di valore un rapporto soltanto quantitativo. Al contrario: la forma di equivalente d’una merce non contiene nessuna determinazione quantitativa di valore.
La prima peculiarità che colpisce nella considerazione della forma di equivalente è la seguente: il valore d’uso diventa forma fenomenica del suo contrario, del valore.
La forma naturale della merce diventa forma di valore. Ma si noti bene, questo quid pro quo si verifica per una merce B (abito o grano o ferro, ecc.) soltanto all’interno del rapporto di valore nel quale una qualsiasi altra merce A (tela, ecc.) entra con essa, e soltanto entro questa relazione. Poiché nessuna merce può riferirsi a se stessa come equivalente, né quindi può fare della sua propria pelle naturale l’espressione del suo proprio valore, essa si deve riferire ad altra merce come equivalente, ossia deve fare della pelle naturale di un’altra merce la propria forma di valore.
Ciò ci sarà reso evidente dall’esempio di una misura, conveniente ai corpi di merci come corpi di merci, cioè come valori d’uso. Un pan di zucchero, poiché è un corpo, è pesante e quindi ha peso, ma non si può vedere o toccare il peso di nessun pan di zucchero. Ora prendiamo vari pezzi di ferro, il cui peso sia stato prima stabilito. La forma corporea del ferro, considerata di per sé, non è certo forma fenomenica della gravità più di quanto sia quella del pan di zucchero. Eppure, per esprimere il pan di zucchero come gravità, noi lo poniamo in un rapporto di peso con il ferro. In questo rapporto, il ferro vale come un corpo che non rappresenta null’altro che gravità. Quindi, quantità di ferro servono come misura di peso dello zucchero e rappresentano nei confronti del corpo zuccherino pura forma di gravità, forma fenomenica di gravità. Il ferro rappresenta questa parte soltanto all’interno di questo rapporto nel quale lo zucchero, o qualunque altro corpo del quale si deve trovare il peso, entra con esso. Se le due cose non avessero gravità, esse non potrebbero entrare in tale rapporto, e quindi l’una non potrebbe servire come espressione della gravità dell’altra. Se le gettiamo entrambe sul piatto della bilancia, vediamo effettivamente che esse, come gravità, sono la stessa cosa. Come il corpo ferro come misura di peso nei confronti del pan di zucchero rappresenta solo gravità, così nella nostra espressione di valore, il corpo abito rappresenta, nei confronti della tela, soltanto valore.
Ma qui l’analogia finisce. Nell’espressione di peso del pan di zucchero il ferro rappresenta una proprietà naturale comune ad entrambi i corpi, la loro gravità, mentre l’abito nell’espressione di valore della tela rappresenta una proprietà sovrannaturale di entrambe le cose: il loro valore, qualcosa di puramente sociale.
Mentre la forma relativa di valore d’una merce, per esempio della tela, esprime il suo esser valore come qualcosa del tutto differente dal suo corpo e dalle sue proprietà, per esempio, come eguale ad abito, questa stessa espressione indica che in essa si cela un rapporto sociale. Per la forma di equivalente vale l’inverso. Essa consiste proprio nel fatto che un corpo di merce, come l’abito, questa cosa così com’è, tale e quale, esprime valore, cioè possiede per natura forma di valore. Certo questo vale soltanto all’interno del rapporto di valore, nel quale la merce tela è riferita come equivalente alla merce abito. Ma poiché le proprietà di una cosa non sorgono dal suo rapporto con altre cose, ma anzi si limitano ad agire in tale rapporto, anche l’abito sembra possedere per natura la sua forma di equivalente, la sua proprietà di immediata scambiabilità, quanto la sua proprietà di esser pesante o dì tener caldo. Di qui viene il carattere enigmatico della forma di equivalente, carattere che non colpisce lo sguardo borghesemente rozzo dell’economista politico prima che questa forma gli si presenti di fronte bell’e finita, nel denaro. Allora egli cerca di eliminare a forza di spiegazioni il carattere mistico dell’oro e dell’argento, surrogando loro merci meno abbaglianti e recitando con sempre rinnovato compiacimento il catalogo di tutto il volgo di merci che a suo tempo ha rappresentato la parte dell’equivalente di merci. E non ha la minima idea che già la più elementare espressione di valore, come: 20 m di tela = 1 abito, ci dà da risolvere l’enigma della forma di equivalente.
Il corpo della merce che serve da equivalente, vale sempre come incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto. Questo lavoro concreto diventa dunque espressione di lavoro astrattamente umano. Per esempio, se l’abito conta come pura e semplice realizzazione, allo stesso modo la sartoria, che si realizza effettivamente in esso, conta come pura e semplice forma di realizzazione di lavoro astrattamente umano. Nell’espressione di valore della tela l’utilità della sartoria consiste non nel fatto ch’essa faccia gli abiti, quindi anche i monaci, ma ch’essa fa un corpo che basta vederlo per sapere che è valore, cioè coagulo di lavoro, che non si distingue affatto dal lavoro oggettivato nel valore di tela. Per fare da tale specchio di valore, la sartoria non deve rispecchiare null’altro che la sua proprietà astratta d’esser lavoro umano.
Nella forma della sartoria come nella forma della tessitura si spende forza-lavoro umana. Quindi l’una e l’altra posseggono la qualità generale di lavoro umano e quindi in casi determinati, per esempio nella produzione di valore, possono venire considerate soltanto da questo punto di vista. Tutto questo non è misterioso. Ma nell’espressione di valore della merce la cosa è stravolta. Per esempio, per esprimere che la tessitura costituisce il valore della tela non nella sua forma concreta del tessere, ma nella sua qualità generale come lavoro umano, le si contrappone come tangibile forma di realizzazione di lavoro astrattamente umano la sartoria, il lavoro concreto che produce l’equivalente della tela.
Dunque una seconda peculiarità della forma di equivalente è che lavoro concreto diventa forma fenomenica del suo opposto, di lavoro astrattamente umano.
Ma poiché questo lavoro concreto, la sartoria, conta come semplice espressione di lavoro umano indifferenziato, ha la forma dell’eguaglianza con altro lavoro, col lavoro inerente alla tela, ed è quindi, benché lavoro privato, lavoro in forma immediatamente sociale come ogni lavoro che produce merci. Appunto per questo esso si rappresenta in un prodotto che è immediatamente scambiabile, con altra merce. E’ dunque una terza peculiarità della forma di equivalente che lavoro privato diventi forma del sito opposto, diventi lavoro in forma immediatamente sociale.
Le due peculiarità or ora svolte della forma di equivalente diventano ancor più comprensibili se risaliamo al grande indagatore che ha analizzato per la prima volta la forma di valore come tante altre forme di pensiero, forme di società e forme naturali: Aristotele.
In primo luogo Aristotele enuncia chiaramente che la forma di denaro della merce è soltanto la figura ulteriormente sviluppata della semplice forma di valore, cioè dell’espressione del valore di una merce in qualsiasi altra merce a scelta, poiché dice:
” 5 letti = 1 casa ”
non si distingue da:
” 5 letti = tanto e tanto denaro ”
Inoltre vede che il rapporto di valore al quale è inerente la espressione di valore porta con sé a sua volta che la casa venga equiparata qualitativamente al letto, e che queste cose, differenti quanto ai sensi, non sarebbero riferibili l’una all’altra come grandezze commensurabili senza tale identità di sostanza. Egli dice: ” Lo scambio non può esserci senza l’identità, e l’identità non può esserci senza la commensurabilità . Ma qui si ferma, e rinuncia all’ulteriore analisi della forma di valore. ” Ma è in verità impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili “, cioè qualitativamente eguali. Tale equiparazione può esser solo qualcosa di estraneo alla vera natura delle cose, e quindi solo un'” ultima risorsa per il bisogno pratico “.
Aristotele stesso ci dice dunque per che cosa la sua analisi non procede oltre: per la mancanza del concetto di valore.
Che cos’è quell’eguale, cioè la sostanza comune, che nell’espressione di valore del letto rappresenta la casa per il letto?
Aristotele dichiara che una cosa del genere ” in verità non può esistere “. Perché? La casa rappresenta qualcosa d’eguale nei confronti del letto in quanto rappresenta quel che è realmente eguale in entrambi, nel letto e nella casa. E questo è: il lavoro umano.
Ma Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la disuguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. L’arcano dell’espressione di valore, l’eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto di lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto d’eguaglianza nella espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista ” in verità ” questo rapporto di eguaglianza. - A4. Il complesso della forma semplice di valore.
La forma semplice di valore d’una merce è contenuta nel suo rapporto di valore con una merce di genere differente, ossia nel rapporto di scambio con essa. Il valore della merce A viene espresso qualitativamente per mezzo della scambiabilità immediata della merce B con la merce A. Quantitativamente viene espresso mediante la scambiabilità di una quantità determinata della merce B con la quantità data della merce A. In altre parole:
il valore di una merce è espresso in maniera indipendente dalla sua rappresentazione come “valore di scambio”. Quel che s’è detto, parlando alla spiccia, all’inizio di questo capitolo, che la merce è valore d’uso e valore di scambio, è erroneo, a volersi esprimere con precisione. La merce è valore d’uso ossia oggetto d’uso, e “valore”. Essa si presenta come quella duplicità che è, appena il suo valore possiede una forma fenomenica propria differente dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio; e non possiede mai questa forma se considerata isolatamente, ma sempre e soltanto nel rapporto di valore o di scambio con una seconda merce, di genere differente. Ma una volta che si sappia ciò, quel modo di parlare non fa danno, anzi, serve per abbreviare.
La nostra analisi ha dimostrato che la forma di valore o l’espressione di valore della merce sorge dalla natura del valore di merce, e che non è vero l’inverso, che valore e grandezza di valore sorgano dal suo modo d’esprimersi come valore di scambio. Eppure questa è l’illusione sia dei mercantilisti e dei moderni che ce li rifriggono come il Ferrier, il Ganilh, ecc., sia anche dei loro antipodi, i commis-voyageurs moderni del libero scambio, come il Bastiat e compagnia. I mercantilisti pongono l’accento principale sul lato qualitativo dell’espressione di valore, e quindi sulla forma di equivalente della merce che ha la sua figura perfetta nel denaro: invece i rivenditori ambulanti moderni del libero scambio, che debbono liquidare a ogni prezzo la loro merce, mettono l’accento principale sul lato quantitativo della forma di valore. Di conseguenza per essi non esiste né valore né grandezza di valore della merce all’infuori dell’espressione data dal rapporto di scambio, cioè del bollettino dei prezzi correnti del giorno. Lo scozzese MacLeod, quando esercita la sua funzione di azzimare della maggiore erudizione possibile le intricate e confuse idee di Lombardstreet, è una sintesi ben riuscita di mercantilista superstizioso e di illuminato rivenditore ambulante del libero scambio.
La considerazione attenta dell’espressione di valore della merce A contenuta nel rapporto di valore con la merce B ha mostrato che all’interno di essa la forma naturale della merce A conta solo come figura di valore d’uso, e la forma naturale della merce B solo come forma di valore, figura di valore. L’opposizione interna fra valore d’uso e valore, rinchiusa nella merce, viene dunque rappresentata da una opposizione esterna, cioè dal rapporto fra due merci, nel quale la merce il cui valore deve essere espresso, viene espressa immediatamente solo come valore d’uso, e invece l’altra merce, in cui viene espresso valore, conta immediatamente solo come valore di scambio. La forma semplice di valore di una merce è dunque la forma fenomenica semplice del contrasto in essa contenuto fra valore d’uso e valore.
Il prodotto del lavoro è oggetto d’uso in tutti gli stati della società, ma soltanto un’epoca, storicamente definita, dello svolgimento della società, quella che rappresenta il lavoro speso nella produzione d’una cosa d’uso come sua qualità “oggettiva” cioè, come valore di essa, è l’epoca che trasforma in merce il prodotto del lavoro. Ne consegue che la forma elementare di valore della merce è simultaneamente la forma semplice di merce del prodotto del lavoro, e che quindi anche lo svolgimento della forma di merce coincide con lo svolgimento della forma di valore.
Basta uno sguardo per vedere l’insufficienza della forma semplice di valore, di questa forma germinale che matura fino alla forma di prezzo solo dopo una serie di metamorfosi.
L’espressione di A in una qualsiasi merce B distingue il valore della merce A soltanto dal suo proprio valore d’uso, e quindi pone la merce soltanto in un rapporto di scambio con un qualsiasi genere di merce singolo che sia differente da essa, invece di rappresentare la sua eguaglianza qualitativa e la sua proporzionalità quantitativa con tutte le altre merci. Alla forma semplice relativa di valore di una merce corrisponde la singola forma d’equivalente di un’altra merce. Così l’abito, nell’espressione relativa di valore della tela, ha soltanto forma di equivalente ossia forma di immediata scambiabilità in relazione a questo singolo genere di merci, alla tela.
Ma la forma singola di valore trapassa da sola in una forma più completa. E’ vero che mediante essa il valore di una merce A viene espresso solo in una merce di altro genere. Ma è cosa del tutto indifferente di qual genere sia questa seconda merce, abito, ferro, grano, ecc. Dunque, a seconda che quella merce A entra in un rapporto di valore con questo o quell’altro genere di merci, nascono differenti espressioni semplici di valore di quell’unica e medesima merce22a. Il numero di queste sue possibili espressioni di valore è limitato soltanto dal numero dei generi di merci da essa differenti. Quindi la sua espressione isolata di valore si trasforma nella serie sempre prolungabile delle sue differenti espressioni semplici di valore.