di Giusto Buroni – Proseguiamo ora con i mutamenti di Lifestyle richiesti al comune consumatore in seguito all’insorgente timore di esaurire le risorse. Una volta scaricata sul “consumatore” ogni colpa del rischio di esaurimento, si trattava di obbligarlo a accettare mutamenti di stile di vita che gli dessero l’impressione di soddisfare le esigenze di risparmio di energia senza rendersi conto di spendere tutti i propri guadagni o risparmi per continuare ad arricchire i produttori di generi di consumo, che si ritengono esentati dal migliorare l’efficienza dei loro processi produttivi quando ciò comporti un aumento di spesa. Il consumatore che, a causa del buco nell’ozono, aveva già dovuto cambiare il frigorifero, viene ora invitato a cambiare tutti i suoi elettrodomestici e i sistemi elettronici audiovisivi, ancora perfettamente funzionanti. Vengono posti sotto accusa tutti gli apparecchi telecomandati a raggi infrarossi (e anche i più rari radiocomandati), perché il ricevitore e decodificatore di comandi resta in funzione tutto il giorno e comporta una quantità di lucine rosse, gialle e verdi che non servono quando non si usa l’apparecchio. Da bandire sono anche tutti i registratori audio e video, perché, in attesa di entrare in funzione secondo i tempi programmati, rimangono in uno stato di “stand-by” durante il quale una parte dell’elettronica viene alimentata: per esempio, deve sempre funzionare l’orologio. Vengono messi in commercio strani marchingegni, ovviamente telecomandati, che contemporaneamente spengono tutti gli “stand-by” di casa. La comunità Europea, che nel frattempo si era presa in carico il problema, aveva disposto che tutti gli apparecchi elettronici dovessero essere dotati anche di un interruttore generale meccanico. Il cittadino comune comprava i nuovi modelli “a norma”, senza accorgersi che d’ora in avanti avrebbe dovuto passare ore a ri-programmare orologi e timer, come quando ci si riprende da un “black-out”. Non sapevamo, all’inizio, che questo era l’anticipo di ciò che sarebbe successo nell'”Era Digitale”, in cui non c’è più bisogno di registrare programmi radiofonici o televisivi perché con un semplice (e costoso) abbonamento a uno dei tanti servizi “on-demand” disponibili si può sentire o vedere in qualunque momento e senza interruzioni da pubblicità qualunque programma che uno possa avere perduto “in diretta”. Naturalmente con i filmati di famiglia non c’è questa possibilità: verranno archiviati nel cellulare fino a riempire la memoria, poi verranno cancellati, senza essere stati mai più rivisti.
Non si deve dimenticare, parlando di consumo degli “stand-by, la controproducente campagna che si fa per il lancio della “Domotica”, che, insieme a alcune trovate utili, offre anche la comodità di aprire e chiudere tende, finestre, sportelli e cassetti degli armadi, ecc. mediante motore elettrico azionato con telecomando, anche con apposita APP. Naturalmente anche qui tutti i ricevitori e decodificatori di telecomando, uno per ogni finestra e armadio, devono essere accesi in permanenza, mandando a farsi benedire tutto il risparmio ottenuto eliminando gli “stand-by” da televisori e videoregistratori. In conclusione: anche lo scandalo energetico degli “stand-by” nascondeva più di una grossa montatura commerciale.
Il prezzo del petrolio non sale perché i giacimenti aumentano e l’estrazione costa sempre meno
Riprendiamo a parlare dei prezzi del petrolio, che a causa del (falso) allarme sul prossimo esaurimento sarebbero dovuti andare alle stelle: si prevedevano aumenti del costo del barile dai 20 dollari del ’73 ai 140 dollari di pochi anni più tardi, prima della fine dei giacimenti. A 150 dollari si arrivò, ma il petrolio non finì e ora che si è abbassata un po’ la richiesta non si sa bene a chi darlo, o da chi comprarlo, se non fosse per qualche “embargo” stabilito dagli Americani; oggi (maggio 2019) il prezzo si aggira sui 70 dollari, da confrontare con i 20-25 (non “attualizzati”) dei primi anni ’70. Non molti anni fa (mi sembra il 2012) il solito Luca Mercalli in Italia ebbe la faccia tosta di annunciare in una trasmissione televisiva che proprio da quel giorno si cominciava a bruciare il petrolio che era stato messo da parte per i secoli futuri: era il giorno in cui la velocità con cui si consumava superava di molto quella di estrazione e perciò era l’inizio della fine; questo nuovo “mostro” era stato battezzato “Oil Peak” dalla comunità scientifica e , guarda caso, si era verificato proprio quando era stato previsto (e come si potrebbe controllare?). Fabio Fazio, che era il conduttore di quel programma (il vecchio “Che tempo che fa”) e comunque non aveva capito mai niente delle spiegazioni anche solo meteorologiche di Mercalli, non poteva che annuire, avallando l’ennesima bufala con la sua autorità di intellettualoide più pagato d’Italia. La Comunità Scientifica invece non osò più riprendere l’argomento, perché il petrolio continuava a scorrere (in quegli anni si scoprì il “fracking” e fu la produzione americana a registrare un picco”) e a venire scambiato allegramente (dai petrolieri e distributori di energia) e consumato (meno allegramente) dagli automobilisti. Per chi ci crede ancora, la data dell’Oil Peak è stata spostata al 2020 affinché la farsa possa continuare.
“Ecomoralisti”: ignoranti e insopportabili snob
Quale miracolo si era verificato? Già prima di dichiarare la (falsa) crisi, nel Nord Europa si erano cominciati a sfruttare ricchi giacimenti scoperti nel Mare del Nord, ma il costo dell’estrazione dal fondo marino non allettava gli investitori. Ecco dunque il rimedio: dichiarare la crisi del petrolio arabo per alzarne il prezzo e rendere immediatamente competitivo il petrolio nordeuropeo. Gran Bretagna e Scandinavia risolsero tutti i loro problemi finanziari, ma il prezzo del petrolio al consumo (centrali elettriche e benzina) non scese mai più, e, per mantenere lo stato di apprensione nei consumatori, non fu dato nemmeno il “cessato allarme” per l’esaurimento del petrolio, anche se, di fatto, vennero annullati tutti i provvedimenti presi al momento dell’emergenza: per esempio TV e attività commerciali furono subito autorizzati ad operare giorno e notte ed ebbero uno sviluppo inaspettato (canali televisivi e centri commerciali si moltiplicarono). Da qualche anno quando i consumatori, dati alla mano, si permettono di mettere in dubbio la gravità della “situazione petrolifera”, li si zittisce con argomenti “ecomoralisti”, del tipo: “è criminale distruggere con un semplice fiammifero ciò che Madre Natura ha creato in milioni di anni di reazioni chimiche e fisiche: è così che si forma il petrolio, almeno finché non sarà chiaro a tutti che ci sono stati e ci sono dei batteri capaci di trasformare (abbastanza) rapidamente in petrolio sostanze carboniose come la cellulosa; tuttavia è innegabile che il fiammifero distruttore sia più rapido dei batteri creatori. Insomma, manca poco che insegnino ai bambini ad amare il petrolio almeno quanto l’acqua, creando nei più intelligenti una gran confusione. Comunque, aumentò di pari passo lo sfruttamento di gas naturale, di cui quasi ogni Paese scoprì di essere ricco; se proprio non si è autosufficienti, da qualche decennio è diventato possibile, per mezzo di gasdotti, rifornirsi da Paesi vicini amici o comunque meno esosi degli Arabi. Certamente, anche il “gas naturale” è un combustibile fossile, come carbone e petrolio, ma è più “pulito” e non può ancora entrare nella categoria dei “cattivissimi” (anche perché la mafia non vuole: un gasdotto è un bel business); ma non sfugge alla critica di essere “gas serra”: pare che il metano sia il secondo gas serra dopo il vapore acqueo e prima della povera anidride carbonica, che in ogni caso si genera anche dalla combustione del metano. E per finire la rassegna delle sostanze che hanno reso meno tragica la presunta scarsità del petrolio occorre ricordare le più recenti, anche se contestatissime, “new entry”: lo “shale gas” e lo “shale oil” (in italiano: gas e petrolio di scisti, dove “scisti” sta per “rocce argillose” stratificate e quindi facilmente sfaldabili). Più che come combustibili, questi due prodotti, del resto fossili, sono criticati per la tecnica di estrazione, e così tanto che per la prima volta si è arrivati ad attribuire alcuni terremoti (finora intoccabili, essendo figli di Madre Natura) al modo in cui si estraggono: questi speciali tipi di petrolio e gas sono infatti racchiusi in certe rocce impermeabili, che si trovano quasi ovunque nel mondo a un migliaio di metri di profondità; quindi bisogna raggiungerle con scavi molto invasivi, fratturarle (da cui il nome Fracking dato alla tecnica di estrazione) con liquido (acqua) ad alta pressione immesso da pompe, mantenerne aperte le fratture per mezzo di materiali resistenti allo schiacciamento, monitorarne la geometria con traccianti radioattivi (che potrebbero inquinare falde acquifere vicine), e raccoglierne il prezioso contenuto liquido o gassoso. Ce n’è a sufficienza per stilare un lungo elenco di danni ambientali veri o presunti e quindi per proibire la tecnologia in moltissimi Paesi che applicano il famoso Principio di Precauzione a tutto ciò che mette a rischio la salute…. della loro economia o della politica commerciale. E così il Fracking è osteggiato in molte parti del mondo, fra cui ovviamente l’Italia, dove si osteggia qualunque iniziativa e innovazione, eccetto i telefoni cellulari e la televisione, purché di ultima generazione, prima ancor di sapere di che cosa si tratti (per pre-cauzione, appunto).
Gli effetti della paura
Quindi il petrolio in circolazione è ancora tanto, e più ancora si potrebbe contare su gas naturale e su nuovo “carbone pulito”, se non fosse per il citato problema della nobiltà dei fossili (milioni di anni per farli, un attimo per bruciarli!) e per la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera: sopra 450 parti per milione (ppm) di biossido di carbonio (questo è il vero e unico nome dell’anidride carbonica, secondo gli asini di Wikipedia)pare che la catastrofe sia inevitabile; e nel 2013 siamo già arrivati a 399, non una di più, né una di meno, e cresciamo di due parti all’anno! Nel 2040 è la fine! E così in questi decenni la gente, sempre più spaventata da notizie ogni anno più allarmanti (l’IPCC si riunisce annualmente proprio a tale scopo, cioè per mantenere alto e in aumento il livello di allarme) ha cambiato più volte la propria macchina, comprando modelli che annunciavano più bassi consumi (ma intanto il prezzo della benzina aumentava a causa delle imposte) e minori “emissioni”, fino ad arrivare all’attuale macchina elettrica, che ha un prezzo di acquisto esagerato, una velocità alta, e quindi inutile, una ripresa fulminea, ma un rischio di rimanere fermi a causa della scarsa autonomia e dei lunghissimi tempi di ricarica (e delle introvabili colonnine per il rifornimento). Eppure l'”elettrico” si vende (almeno in Europa, mentre in America ancora non si fidano) e c’è gente, evidentemente non povera come dichiara, che per le “gite fuori porta” ha la macchina a benzina (SUV, possibilmente), per gli spostamenti in città ha la macchina elettrica, ma anche svariati abbonamenti al car-sharing per accedere al Centro e parcheggiarvi. Naturalmente è scoppiato in parallelo il business della bicicletta e del “bike-sharing”, quest’ultimo fornito a prezzi stracciati dai Comuni, grazie a sovvenzioni di Stato; e anche i mezzi pubblici sono stati presi d’assalto (ma a Milano gli autobus elettrici sono solo due, e è difficile capire su che linea li facciano circolare, se mai circolano. Idem nelle altre maggiori città d’Europa). Insomma, la corsa ai consumi c’è, come previsto e auspicato (e incongruente con le professioni di risparmio energetico), ma, in Italia e in buona parte dell’Europa, non si “consumano” più prodotti ecologici locali, perché molti di essi si fabbricano in Oriente a un costo nettamente minore (per i commercianti, non per i consumatori finali), nonostante il trasporto, e bisognerà escogitare qualche altro trucco per farli tornare dov’erano fino a una trentina di anni fa.
Inoltre le giuste critiche degli ambientalisti agli impianti di riscaldamento hanno indotto la gente a sostituire anche le caldaie, divenute via via più costose: guai a chi oggi confessa di non avere ancora una “caldaia a condensazione” e di non avere i soldi per “fare il cappotto alla casa”, cioè coibentarla contro le intemperie e contro la calura estiva, mentre poco successo ha avuto il teleriscaldamento, come sempre per il motivo che avrebbe veramente ridotto costi e consumi e ciò non fa piacere ai ministeri delle finanze. Anche i sistemi geotermici, che in quasi tutto il mondo fornirebbero acqua preriscaldata d’inverno (15°C) e nettamente fresca (sempre 15°C) d’estate, non sono molto incoraggiati, perché tale acqua miracolosa (che, per carità, non deve essere inquinata dall’Uomo) si trova facilmente, dove c’è, scavando a meno di cento metri di profondità.
L’evoluzione e la rivoluzione dei media, tutti digitali… e lo smaltimento?
Continua invece a migliorare nettamente l’efficienza energetica, ma soprattutto “informatica”, dei sistemi elettronici, che oggigiorno (2019) tendono ad accentrare in un unico piccolo computer o tablet o addirittura telefono cellulare tutte le funzioni “multimediali”: ricezioni e riprese audio-video, registrazioni, riproduzioni, stereofonia, visione 3D, archiviazione e elaborazione di dati, immagini e musica. L’apparente risparmio economico ed energetico negli ultimi 30 anni è stato però cancellato dai frequenti cambi di tecnologia e dalla difficoltà di apprendimento rapido delle regole di utilizzo: la registrazione su nastro magnetico (analogico) è iniziata nel caos degli standard ed è finita per tutti in mezzo secolo senza risolvere i problemi dell’unificazione, quella su disco analogico è scomparsa da tempo, quella su disco digitale è quasi finita e durante ogni fase, e per ogni standard, si sono moltiplicati i modelli. L’esecuzione del software è diventata sempre più veloce, permettendo (ed esigendo) memorie sempre più capaci e ad accesso sempre più rapido. E così il pubblico è invogliato, ma spesso anche obbligato da problemi di compatibilità (oltre che dalla “moda”), a rinnovare i propri impianti multimediali (e ad impararne l’uso) anche due o tre volte all’anno, nonostante la lunga durata degli apparecchi elettronici più recenti. Infatti le tecnologie elettroniche si sono dimostrate in grado di emulare anche molte parti meccaniche che mezzo secolo fa sembravano insostituibili (come i sorprendenti micro giroscopi che permettono di ruotare l’immagine nei tablet) e perciò hanno un’aspettativa di vita ben superiore ai 10 anni, tanto che si mormora che molti elettrodomestici ormai contengano dispositivi “a tempo” che ne provocano l’arresto, dall’utente attribuito a guasto, dopo tre anni o poco più dall’acquisto.
I frequenti rinnovi dei materiali elettronici stanno creando un nuovo problema “ambientale”: quello dello smaltimento e possibilmente del recupero e riciclaggio, perché appare chiaro che si vada verso l’esaurimento delle risorse elettroniche più rapidamente di quello delle risorse energetiche e sarà bene che sociologi e tecnici si affrettino a porre un freno a questi sviluppi troppo rapidi o almeno a predisporre un efficiente sistema di riutilizzo dei vecchi apparati e un trasferimento il più possibile completo delle informazioni e dei dati dagli apparecchi più vecchi a quelli più recenti. Questi criteri di pianificazione dello sviluppo tecnologico, che diventa dannoso, dispersivo e dispendioso se compiuto a piccoli passi veloci, dovrebbero diventare materia di studio nei corsi di laurea di sociologia e economia e dovrebbero avere come obiettivo principale l’Efficienza di ogni tipo (energetica, economica, ergonomica e sociale: naturalmente è essenziale una definizione a sua volta “efficiente” di tutti questi tipi di efficienza).
L’inquinamento dell’aria
La pretesa scarsità del petrolio, viene “annunciata” nel ’73, nonostante già due anni prima, come si è detto, fosse incominciato lo sfruttamento dei ricchi e comodi giacimenti del Mare del Nord; perciò molti capirono che una crisi energetica impostata su queste basi non sarebbe durata molto. Il petrolio che non finiva doveva assolutamente essere demonizzato, perché per rilanciare i consumi è sempre necessario modificare radicalmente le fonti primarie, influendo così sull’intera “filiera” di ogni prodotto. E’ anche inevitabile che fonti primarie nuove, che sono sempre più potenti e possibilmente meno costose delle precedenti, permettano di realizzare prodotti più appetibili sui quali è facile prevedere che il consumatore si precipiterà, anche a costo di grossi sacrifici (basti pensare ai grandi schermi televisivi o ai SUV, cose assolutamente inutili e dispendiose, ma andate a ruba. grazie ad astute campagne pubblicitarie.). Così ci si dimenticò ben presto della scarsità di petrolio e la si sostituì con lo spauracchio dell’inquinamento dell’aria che respiriamo, attribuito facilmente all’uso di combustibili fossili o comunque carboniosi. Anche la cellulosa delle piante, e quindi della “legna da ardere”, responsabile dei gravi inquinamenti dell”800 è, in effetti, carboniosa e rientra facilmente fra i combustibili contro cui “lottare”, ma qui è ancora aperta la disputa sull’opportunità di proibire l’uso della legna per il riscaldamento: vari esperti di tutto il mondo da anni si guadagnano il pane (e buon companatico) cercando di dimostrare una tesi o il suo opposto, a seconda del momento “storico”, ma con criteri scientifici “da casinò”. Sistemata senza grossi danni economici per i produttori la calamità “fumo delle sigarette” con un semplice forte aumento di prezzo e con la scritta “il fumo ti uccide” anche sui pacchetti di contrabbando, si poté passare a spaventare la gente con i danni ai polmoni e al sangue provocati dai prodotti delle combustioni per uso industriale, di riscaldamento (inceneritori di rifiuti inclusi) e di trasporto (delle attività belliche ripeto che non è permesso di parlare). Se le combustioni fossero “complete”, cioè oneste reazioni chimiche compiute alle giuste temperature con componenti correttamente dosati, non ci sarebbe da preoccuparsi dei prodotti, che sarebbero sempre sostanze “stabili”, cioè non aggressive verso gli esseri viventi animali e vegetali, alle normali temperature dell’ambiente. Ma, come tutti sanno, una combustione completa è impossibile o costosa da ottenere, specialmente in condizioni ambientali complesse e variabili, e perciò si dovrà sempre valutare quanto costa renderla completa o quali danni si possono tollerare da una combustione incompleta. Ma mentre da una parte è evidente che non si potrà mai raggiungere la completezza, dall’altra è chiaro che si potranno eliminare la maggior parte dei residui (dannosi) per mezzo di appositi, anche se talvolta costosi, filtri. Per sensibilizzare il mondo sui pericoli di certe combustioni ci sono voluti incidenti gravi, fra cui, in Italia, quello di Seveso (ICMESA, 1976) che ha rivelato la tossicità della diossina, una sostanza che si forma dalla combustione di materie plastiche. L’inaffidabilità delle pubbliche amministrazioni che non fanno rispettare le norme di sicurezza fa sì che molte popolazioni insorgano quando si prospetta la costruzione di termovalorizzatori, ma ciò non toglie che quando sono ben fatti siano un valido contributo alle politiche di risparmio energetico (certamente si ridurrebbero anche le discariche abusive e i relativi incendi dolosi).
Le energie “pulite”
Il problema dell’energia ottenuta da combustione “inquinante” ha fatto nascere l’ostilità verso le fonti “sporche” in favore di quelle ritenute “pulite” e ha stimolato maggiormente lo sviluppo delle cosiddette “rinnovabili” (sole, vento, e acqua) che, guarda caso, non richiedono combustione, almeno al momento dell’utilizzo. Il nucleare a fissione, anch’esso pulito per quanto riguarda i prodotti chimici all’utilizzo, resta bandito a causa delle radiazioni. Le radiazioni, di altro tipo, ci sono anche nel nucleare a fusione e così i “nuclearisti della fissione” meno radicali (i superstiti delle vecchie generazioni; quelle nuove non sanno neanche distinguere tra fissione e fusione) si sono fatti convincere da Bonelli (l’antinuclearista che agisce nell’ombra e ammansisce con argomenti politici e mai scientifici i pochi nuclearisti rimasti) ad aspettare i risultati di ITER-Cadarache (nella foto a lato) intorno al 2050, e così sia, almeno in Italia.
Nessuno ha mai dimostrato però che se si considera l’intera filiera che va dalla produzione delle parti che costituiscono l’impianto delle “rinnovabili” fino all’utilizzo corretto, che comporta attività intense di manutenzione, e seri problemi di smaltimento a fine vita, il bilancio sia ancora a favore di un uso pulito dell’energia. Naturalmente, se la maggior parte dei pannelli solari e delle pale eoliche si costruisce in India o Cina e ipocritamente si chiudono gli occhi sui danni ambientali di tali fabbriche in Oriente e del trasporto in Europa o USA dei loro prodotti, allora si parla di “energie pulite”, ma ancora una volta ingannando il consumatore, abituato da millenni a usare i prodotti della tecnologia senza pensare alla loro origine (così come spesso si mangia la carne, trattata in modo elaborato e gradevole, che fa dimenticare che proviene da un simpatico agnello, o vitello o anche pollo). Insomma l’inquinamento atmosferico, specialmente a quote basse e molto basse, c’è ed è in aumento, dove più, dove meno; lo si attribuisce alla scarsa sensibilità dei tecnici verso gli effetti che la tecnologia ha sull’ambiente, ma in realtà questo è solo l’ultimo stadio di un processo alla cui origine sta un’impressionante crescita della popolazione mondiale (e delle sue esigenze di sopravvivenza), che dalla fine della seconda Guerra Mondiale a oggi è passata da meno di un miliardo a più di ben sette miliardi di unità, dunque di oltre otto volte.
Gli animali da compagnia
Mi pare di non avere mai trovato, negli studi demografici che sempre accompagnano le analisi delle colpe del Genere Umano verso l’Ambiente, la seguente scandalosa considerazione: se fra i fruitori di risorse includessimo anche gli “animali da compagnia”, il cui numero è cresciuto più della specie umana, e proprio per volontà e capriccio della specie umana (ecologisti e animalisti, soprattutto, ma non dimentichiamo i semplici e misantropi “amatori del Creato” e i “punkabbestia”), troveremmo, per i relativi consumi energetici, dei risultati sorprendenti, che non intendo puntualizzare in questo articolo per non esasperarne il tono provocatorio. Non mi si neghi però che, oltre a essere sottratto alla sua specifica catena alimentare, l'”animale da compagnia” in famiglia richiede: un’auto più grande e speciale per il trasporto secondo le norme; possibilmente una casa più grande o un giardinetto attrezzato; l’approvvigionamento di generi alimentari speciali e di “vestiario” speciale, ormai spudoratamente disponibili in tutti i supermercati; l’acquisto di lettiere e di stoviglie per i pasti; l’acquisto di altre attrezzature imposte per legge (e che all’Umano fortunatamente per ora non sono richieste) per passeggio e pulizie (guinzagli, palette, sacchetti di plastica, disinfettanti, deodoranti, ecc.); visite veterinarie e controlli medici stabiliti dalle leggi (che proteggono gli animali meglio degli Umani); un’assicurazione RC per le razze aggressive (che con la “compagnia” non hanno niente a che vedere). In Italia il numero di cani e gatti pare che sia circa un quarto della popolazione (fonte: Internet) ma credo che riguardi quelli registrati all'”anagrafe”, perché quando vedo gli otto cani (“di razza”) di Berlusconi e i molto più numerosi “amici” della sua degna compagna di partito Brambilla, e i cani del mio quartiere, quasi tanti quanti sono gli abitanti, mi viene da pensare che le stime siano largamente per difetto. In ogni caso il mantenimento di tutti questi “pet” della popolazione mondiale comporta un consumo energetico (e di acqua!) non indifferente, dello stesso ordine di grandezza di quello attribuito al genere umano; e quindi anche l'”animale da compagnia” è responsabile di tutti i supposti disastri attribuiti ingiustamente alla sola attività “antropica” (ricordo agli analfabeti di ritorno che in Greco antico “anthropos” è l'”appartenente al genere umano”). Chi predica un cambiamento radicale dello Stile di Vita per salvare il Mondo, si ricordi nelle sue prediche degli sprechi energetici e degli inquinamenti che un animale da compagnia comporta (non me lo ero mai chiesto: si riesce a far diventare vegani i fedeli cani e gatti dei Vegani Umani? Oppure è una pratica contro Natura condannabile?). Ma lasciamo esaminare questo aspetto zoologico agli “esperti” animalisti o vegani e torniamo ai nostri problemi di inquinamento.
Il peso dell’auto elettrica e l’inutilità dell’auto ibrida
L’inquinamento al suolo è costituito per lo più da materiali pesanti o polveri che salgono solo per pochi metri prima di precipitare di nuovo a terra: questi fanno male solo alla salute dell’Uomo e dei suoi amici animali (e vegetali) e solo per questo influiscono sull’ambiente e quasi per nulla sul clima. La paura dei danni all’apparato respiratorio provocati dai combustibili carboniosi (o fossili) ha offerto lo spunto ai costruttori di automobili (e mezzi pesanti) di tutto il mondo per cambiare il tipo di produzione e obbligare così gli utenti a rinnovare completamente il parco auto. L’auto elettrica a emissioni zero, o a emissione di acqua se si riuscisse a usare le fantomatiche “celle a combustibile” o comunque l’idrogeno, era l’obbiettivo finale. Invece si sarebbe dovuta migliorare l’efficienza dei motori, ma soprattutto diminuire di molto il peso dell’intera macchina, che, anche quando è elettrica a causa delle batterie pesa dieci volte più dell’autista; se è vero che riescono a far volare veicoli elettrici, a maggior ragione si dovrebbe poter alleggerire un veicolo terrestre, elettrico o no. All’auto 100% elettrica (pesante: si parla di 400 kili di batterie a ioni di litio) si arrivò gradatamente, passando per quella ibrida (cioè alternativamente a benzina/metano e elettrica), includendo anche la sciocchezza, dal punto di vista termodinamico, di fare un motore a scoppio a benzina, che, mentre funziona in modo tradizionale (consumando benzina), carica anche una batteria da cui si potrà estrarre corrente quando la benzina sarà finita (o ci si starà muovendo su strade in cui è proibito inquinare). Ma, come sappiamo, il motore a benzina ha un’efficienza del 30-40%, che non migliora se lo si usa per caricare una batteria, e perciò è vero che alla fine ci si trova con la batteria carica, ma per caricarla si è sprecato il 70% della benzina destinata alla carica elettrica, mentre una batteria caricata da fonte elettrica spreca al massimo il 2% (dell’energia elettrica disponibile). Eppure pare che anche questi modelli si vendano, magari anche agli ambientalisti, per i quali, se seguono l’esempio degli “scienziati” dell’IPCC, lo studio della Fisica è un “optional”. Più efficienti sono le macchine che recuperano carica elettrica trasformando in elettricità l’energia dalle frenate, che fino a pochi anni fa andava dispersa (ma anche così si continua a immettere nell’aria la polvere pesante dei ferodi, responsabile per una buona parte delle polveri sottili totali). In ogni caso in poco tempo quasi tutti hanno cambiato più volte la macchina, anche perché si sono create sempre maggiori difficoltà di circolazione alle macchine “vecchie”. È nato anche un campionato del mondo di Formula E (elettrica), che in Italia si svolge a Roma, mentre a Monza continuerà a svolgersi il campionato tradizionale con carburanti “sporchi” (ma con recupero di elettricità dalle frenate). E si noti che il nuovo campionato di formula E in tutto il mondo ecologista continuerà ad affiancare, anziché sostituire, il dispendiosissimo, e teoricamente obsoleto, campionato di Formula 1, confermando ancora una volta che non si va cercando il risparmio di energia, bensì il maggior consumo e quindi il maggior guadagno. E’ annunciata la Ferrari elettrica, ma gli Emiri e gli Americani continuano a collezionare le Ferrari a benzina. E’ del 4 aprile la notizia che la maggior produttrice mondiale di auto elettriche, l’americana Tesla, ha visto diminuire le vendite del 31% nel primo trimestre del 2019, pochi giorni dopo che aveva fatto scalpore la notizia che il materiale con cui si fabbricano le batterie di ogni tipo, ma delle auto in particolare, il Litio, prende fuoco facilmente ma è anche difficile estinguerlo con i mezzi in dotazione ai Vigili del Fuoco: se a ciò si aggiunge la scarsità di litio nel mondo, si può capire come mai il pubblico abbia perso per l’auto elettrica la simpatia che si dice dimostrasse fino a un paio di anni fa. Leggo anche, su questo giornale, che a Bolzano è stata immatricolata la prima macchina a idrogeno e si avverte che l’idrogeno presenta qualche “piccolo” inconveniente. Il prezzo dichiarato di 69000 dice più di qualsiasi spiegazione. Ma sarà difficile abbandonare in breve tempo la via intrapresa da una ventina d’anni dell’uso di elettricità (da sola o ibrida o a idrogeno) per il trasporto pubblico e privato: il motore elettrico, oltre a non bruciare combustibili fossili, può diventare potente come quello a benzina, ha un rendimento superiore al 90% e uno spunto migliore dei vecchi motori. Punti deboli sono: il peso, l’autonomia, la velocità di ricarica e, a quanto pare, dopo i tanti incendi, l’affidabilità (e con l’idrogeno tutto peggiora, fuorché l’autonomia). Ciò che ha portato molti investitori a scommettere sull'”elettrico” è l’assenza di “emissioni” di ogni tipo (anche se, pur trascurando l’inquinamento generato dalla produzione della macchina, nascerebbe presto il problema dello smaltimento dell’enorme batteria al litio o chi per esso). Prima di rimettere in naftalina il motore elettrico per automobili bisognerà attendere i risultati del promettente materiale “grafene” (lamina di carbonio di spessore “atomico”), destinato a sostituire il litio nella tecnologia delle batterie; ma anche tutto questo con il “risparmio energetico” non ha niente a che vedere.
L’anidride carbonica non c’entra niente
I motori a combustibile fossile bruciano l’ossigeno dell’aria e a lungo andare si forma tanta anidride carbonica (CO2) a spese dell’ossigeno (O2). Al tempo delle prime “visioni” ambientaliste non si pensava all’effetto serra, ma già si demonizzava la CO2, chiamandola erroneamente “gas tossico”, scimmiottando i tanti film catastrofisti di cui i movimenti ambientalisti favorivano la produzione. È vero tuttavia che la (cattiva) combustione di idrocarburi produce anzitutto il tossico Ossido di Carbonio (CO), ma anche una gran quantità di ossidi e di acidi derivanti dall’imperfetta raffinazione della benzina (o del gasolio per motori Diesel), a cui si devono aggiungere le combinazioni chimiche con quegli additivi che da una settantina di anni si aggiungono al petrolio raffinato per aumentare il Numero di Ottani del combustibile, ossia la sua capacità di rispondere alla scintilla delle “candele” in modo sincrono con il movimento dei pistoni del motore (esattamente alla fine del loro “punto morto”, pena un drastico abbassamento di efficienza o peggio); per chi è molto vecchio, tali additivi rendevano “super” la benzina “normale”, ma, essendo a base di piombo, erano un vero pericolo per i polmoni e il sangue degli Uomini e sono stati sostituiti da una nuova miscela di elementi che rendono sì la benzina “verde”, ma anche cancerogena a causa del “Benzene” che si forma durante la combustione. Ciò non ha mai impensierito più di tanto ambientalisti e salutisti (si vede che la “Verde” rende bene), che si sono impegnati invece a combattere le “polveri sottili”. PM10 e PM2,5, rispettivamente con granelli con spessore inferiore a 10 e 2,5 micron (un micron lineare è un millesimo di millimetro, come tanti ambientalisti non hanno mai saputo e purtroppo non sanno tuttora). La Comunità Europea, che senza questi problemi non potrebbe far lavorare i propri ignoranti burocrati, ha sancito che la massima quantità di PM10 accettabile in ogni metro cubo di aria respirabile, deve essere del peso di 50 microgrammi. Si pensi al povero cittadino che deve visualizzare in un cubo di aria piuttosto grande (un metro di spigolo) questa pallina leggerissima di polvere (milionesimi di grammo: solo un cocainomane sa quanto è), i cui granelli sono dell’ordine di millesimi di millimetro! Ma il povero cittadino crede nell’Europa e, pur sapendo che 50 anni fa era vissuto e cresciuto (a aveva viaggiato) in una visibilissima nuvola di carbone, si indigna e scende in piazza se sente dire che questo limite di 50 microgrammi/m3 imposto dall’Europa all’aria è stato superato. Scende in piazza e invoca l’abolizione delle automobili, l’uso delle biciclette su piste riservate e il freddo in casa, salvo dimenticare subito tutto alla fine della manifestazione (fumandosi una salutare sigaretta per rilassarsi). Ma ormai la regola c’è e piovono sanzioni (non ho mai capito se e come si pagano) se non la si rispetta, facendo sì che per una quarantina di anni nelle “città più inquinate” si prendessero ridicoli provvedimenti quali le “domeniche ecologiche” a piedi o in bici, lo scarico notturno delle merci, l’ampliamento delle zone pedonali, il divieto di circolazione a certi tipi di motori, salvo concedere l’accesso a chi va a vedere partite di calcio, o a presenziare matrimoni o battesimi o funerali (ma non a chi va a messa o a visitare degenti in ospedale): la follia dei burocrati e degli amministratori ambientalisti raggiunge il parossismo. Gli scienziati veri non stanno con le mani in mano, chiedono finanziamenti e trovano rimedi. Una speciale vernice viene provata più volte in vari Paesi (si stende sui muri e sull’asfalto) e miracolosamente neutralizza le polveri assassine, ma smaschera la malafede (o la dabbenaggine) degli ambientalisti, perché nessuno dei “potenti” permette di adottarla e diffonderla.