Non si spara sulla Croce Rossa, perché invece è permesso sul pronto soccorso?
Non è possibile stabilire con certezza quando sia nato il modo di dire “Non sparare sulla croce rossa”, ma certo con questa espressione si faceva riferimento a un atto vile rivolto contro chi, inerme, andava in soccorso di chi stava male.
Detto questo ci risulta (come categoria professionale) difficile comprendere l’articolo “Ancora una volta all’ospedale di Alessandria dimettono un paziente che muore poche ore dopo”.
Un articolo che trasuda di luoghi comuni, di ignoranza relativamente alle procedure sanitarie e di poca sensibilità nei confronti della morte di un giovane uomo.
Laddove si cerca lo scoop, non ci si fa scrupoli a calpestare la dignità umana, a fare improbabili ricostruzioni dei fatti, ed a gettare la colpa, senza alcuna presunzione di innocenza, sui sanitari, senza nemmeno comprendere che le indagini in questi casi sono atti dovuti e non condanne.
Il giornalista, prima di scrivere una marea di inesattezze dovrebbe sapere che la carta costituzionale sin dalla sua entrata in vigore, il 1º gennaio 1948, all’articolo 32 fissa in modo perentorio che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Questa disposizione di legge, che può autorizzare il trattamento sanitario obbligatorio (in gergo TSO) ovvero sottoporre una persona a cure mediche contro la sua volontà, è la legge n. 833 del 23 dicembre 1978 all’articolo 34.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è disposto con provvedimento del Sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria, del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova momentaneamente.
Egli emana l’ordinanza di TSO solo in presenza di due certificazioni mediche che attestino che: la persona si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; gli interventi proposti vengono rifiutati; non è possibile adottare tempestive e idonee misure extra-ospedaliere.
Tutte e tre le condizioni devono essere presenti contemporaneamente e devono essere certificate da un primo medico, che può essere il medico di famiglia, ma anche un qualsiasi altro medico e convalidate da un secondo medico che deve appartenere alla struttura pubblica (generalmente uno psichiatra dell’ASL).
Al di fuori di queste ipotesi nessuno può essere sottoposto a trattamenti contro la sua volontà.
Dall’articolo emerge chiaramente che il paziente ha volontariamente (essendo in possesso delle sue facoltà mentali non essendo interdetto) firmato la propria dimissione.
L’interdizione esiste per i soggetti che per malattia o per altri motivi si trovano in condizioni abituali (permanenti) di infermità di mente tali da renderli incapaci totalmente di provvedere ai propri interessi ed in questi casi l’autorità nomina un tutore che provvede alla cura degli interessi dell’interdetto.
Qualora non vi fosse interdizione, come in questo caso, il personale sanitario ha anche il dovere etico morale professionale deontologico di non incorrere nel reato art. 605 codice penale di sequestro di persona, che è libera di firmare le proprie dimissioni.
Alla luce di quanto detto, passaggi dell’articolo come “Tutti vogliono uscire dall’ospedale e tornare a casa, ma sono solo i medici a decidere se si può fare o meno. Anche chi scrive può firmare una dichiarazione in cui chiede di poter volare, ma non per questo lo si deve portare all’aeroporto invece che al Tso”, suonano come ridicoli, pregni di ignoranza, e malamente in cerca di frasi ad effetto, atti solo a creare confusione in chi legge.
Ancora una volta la sua testata giornalistica dà una visione distorta della notizia.
Vorremmo suggerirle per il futuro di evidenziare e valorizzare l’operato del personale sanitario impegnato 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno, festività comprese, nella salvaguardia della salute pubblica.
Alessandria 19/12/2019
Il segretario territoriale
Infermiere dott. Salvatore Lo Presti