di Sonia Oliva – L’italia, da mesi in cura con Dpcm (Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri) emanati da un Presidente del Consiglio che, ricordiamo, nessun italiano ha votato, è a un passo dal ricovero in terapia intensiva. Economia al tracollo, attività produttive a rischio chiusura (con conseguente perdita di posti di lavoro), consumi ai minimi storici, intolleranza e nervosismo verso il prossimo la fanno un po’ da padroni e la pazienza pare non essere più una dote di cui andar fieri. Eh già, il Coronavirus ha innescato un moto continuo e perpetuo di danni che sono (purtroppo) ben lungi dall’essere risolti. Ma solo qualche mese fa, balconi e portoni degli italiani non erano invasi da striscioni e cartelli con grandi arcobaleni e il messaggio “andrà tutto bene”? Oppure, considerata la moda dilagante degli inglesismi che affligge la lingua italiana sarebbe meglio scrivere “everything will be fine”? Oltre che con il virus, dovremo imparare a convivere anche con una lingua che non è nè italiana nè inglese? Da Montecitorio, politici tutti impettiti parlano di battaglia alle fake news, red zone, recovery fund, helicopter money e poi, quando intervistati, aggiungono fiori sulla tomba del congiuntivo. Ma buttare lí parole inglesi nel discorso “fa figo” e, soprattutto, distoglie l’attenzione dalla vasta nullità del concetto che si vorrebbe comunicare. Da anni usiamo parole inglesi legate soprattutto allo sviluppo tecnologico: e-mail, server, on line, password, file, web, mouse, computer, tablet, smartphone. Ma anche in ufficio o tra colleghi non si scherza con la lingua di Shakespeare. Un uso che si è trasformato velocemente in abuso. Soprattutto da quando l’epidemia da Sars-Cov2 ha invaso anche il nostro paese. Qualche esempio? Meeting (riunione), brand (marchio), concept (idea di base), lockdown (confinamento/quarantena), smart working (lavoro a distanza, letteralmente lavoro intelligente). Tutte parole che hanno una traduzione italiana. E allora why? Anzi, perché? Petrarca, Boccaccio e Dante, i padri della lingua italiana, hanno scritto per tutta la loro vita senza prendere in prestito una sola parola da altre lingue. Oggi, per scrivere un post di due righe, ci affidiamo alle abbreviazioni e, ovviamente, agli inglesismi. Due sistemi infallibili per ridurre al minimo e disimparare quel poco di grammatica italiana studiata a scuola. E pensare che Dante Alighieri per comporre la Divina Commedia (prima edizione, 1321), ha usato ben 101.698 parole, circa 33.900 a cantica e 1.017 a canto. Un poema allegorico, studiato in tutto il mondo e considerato la più importante testimonianza della civiltà medievale. L’opera che, per eccellenza, ha contribuito al consolidamento del dialetto toscano come lingua italiana. Un viaggio immaginario attraverso i tre regni ultraterreni che porteranno Dante alla visione della Trinità. Inferno, Purgatorio e Paradiso. Tutte e tre le cantiche finiscono con la parola “stelle”. Stelle e non Stars!
(Video dell’intervista rilasciata a Rai Uno da Pierpaolo Pasolini il 22 febbraio 1968 nel corso della trasmissione “Sapere. L’uomo e la società”)