di Giusto Buroni (seconda ed ultima parte) – Non si conosce poi il ruolo giocato dalle strutture private: un mio amico ultra 70enne, già infartuato, è stato colpito da polmonite in piena pandemia e si è rivolto a una struttura privata che lo ha guarito a casa nonostante l’aggravante di un enfisema polmonare da fumo; gli è stato chiesto una sola volta in due mesi se volesse sottoporsi a tampone e, saputo che in caso di positività ciò avrebbe comportato almeno due settimane di quarantena, che non può permettersi dato che vive solo, ha rifiutato il test (anche quello sierologico post guarigione) e non si saprà mai se fosse uno dei “nuovi contagiati” e poi dei “guariti”; ma anche se lo si fosse saputo non si sarebbe mai potuto determinare il momento del contagio e quindi risalire a tutti i contatti “sociali” avuti durante la malattia. Suppongo che la maggior parte delle strutture private si siano comportate allo stesso modo e che quindi il processo di tracciamento dei contagi sia stato fortemente inficiato soprattutto da questo fattore (il famoso “fattore 10” di differenza tra contagiati veri e dichiarati non doveva essere cercato troppo lontano). Strano che professori e giornalisti non si siano mai scandalizzati di questi episodi e abbiano sempre conservato il massimo segreto sul ruolo giocato (magari anche positivamente, con miracolose guarigioni ottenute con stregoneschi farmaci) dai privati in tutta la prima fase della pandemia.
Il fronte delle strutture private
Del resto, che le strutture private costituissero un fronte compatto e potente si era capito quando avevano fatto difficoltà a mettere a disposizione le proprie attrezzature e risorse di terapia intensiva, ma anche di eseguire i test diagnostici per aumentarne numero e qualità in modo da costituire una vera banca di dati statistici, raggiungendo veramente “grandi numeri”. Fu tale la loro sfacciataggine che i loro direttori responsabili continuarono a dissertare in televisione sulla triste necessità di dover scegliere tra i malati di COVID19 quelli da lasciare morire e quelli da sottoporre a terapia intensiva (in struttura pubblica). Né si opposero mai al trasporto di poveracci moribondi per “onorare il patto coi Tedeschi” (non mi risulta, leggendo i giornali, che ne sia rimpatriato più di uno solo: che fine hanno fatto gli altri 20 o 30?), né alla costruzione di nuovi ospedali di emergenza che risultarono inutili (e resteranno in attesa della seconda ondata, prima di essere definitivamente smantellati, senza neanche provare a donarli a Paesi africani o sudamericani). Può darsi che io sia scarsamente informato sull’argomento (del resto, come qualunque altro cittadino “normale” ricevo informazioni solo dai giornali) ma ho l’impressione che la poca collaborazione dei privati ci abbia portato molto vicino a fare la medesima tragica figura dei miserabili Paesi del Centro America.
Più la medicina costa più è utile?
Chiuderei dunque il capitolo “tamponi (o anche test sierologici) per contare i contagi”, auspicando che nella seconda ondata a scopo diagnostico e non statistico si contino alla bell’e meglio i malati con qualche sintomo influenzale e non ci si preoccupi se fra questi ci scappa ogni tanto qualcuno con l’influenza “normale”. Infatti se non si fossero sprecati tempo e soldi in discussioni filosofiche (e soprattutto politiche), oggi avremmo già da tempo farmaci polivalenti che guariscono indifferentemente (che male c’è?) Covid19 e influenza “normale”, in Europa e in Brasile, in India e in Sud Africa, verosimilmente a un prezzo modico (per questo non ne viene sponsorizzata la ricerca) e con un risparmio di qualche milione di vite umane, che a quanto pare finanziariamente sono ininfluenti. E non staremmo ancora ad aspettare il fantomatico vaccino, che tutti, nonostante le mutazioni del virus, dichiarano ormai di avere in mano (e molti Capi di Stato babbei pare abbiano già “prenotato” a scatola chiusa a suon di miliardi), ma che alla prova dei fatti non sarà pronto prima di quattro anni, quando il Covid19 e le sue varianti si saranno portati via una decina di milioni di persone giovani o vecchie, comprese quelle, si spera, che hanno fatto di tutto per ostacolare il raggiungimento di risultati terapeutici concreti. La corsa al vaccino, che in molti casi epidemici in Europa si è già rivelato inutile perché tardivo, è il grosso business di ogni allarme epidemico (o pandemico), perché i “vaccinandi” sono centinaia di volte più numerosi dei contagiati (ci avete mai pensato?), e quasi in ogni Paese c’è una grossa ditta farmaceutica che partecipa alla gara (in Italia c’è il mio amico Paperone Stefano Pessina, ottantenne ingegnere nucleare) e lo scandalo è scongiurato (affossato) dai tanti politici coinvolti nell’affare, che vale molto di più delle “piccolezze” della Pivetti e di Fontana.
Scienza e alchimia
Ma lasciamo stare le illusioni fantascientifiche di una ricerca onesta di presìdi utili ed efficienti contro il virus (è di questi giorni sui maggiori giornali la pubblicità occulta, mascherata da finte interviste, della lampada UVb prodotta su indicazione di un “professore esoterico” che usando l’”analemma solare” ha calcolato l’”angolo di incidenza” (rispetto a che?) del raggio sparato sul malato infetto; e poi la pubblicità dell’argento, miracoloso metallo dalle arcinote proprietà antivirali) e torniamo a parlare dell’(in)affidabilità, e dell’inutilità, dei conteggi dei parametri della pandemia.
Il numero dei Guariti e dei Deceduti è di per sé più affidabile di quello dei nuovi contagiati, ma la confusione esistente su questi ultimi inficia all’origine qualunque altro parametro successivo, tanto che spesso si è costretti ad aggiustare la curva epidemica “teorica” (barando vistosamente per far “tornare” i conti) che solo una scienza globale ignorante e pigra ha la sfacciataggine di considerare un punto di riferimento, perfino quando ci si rende conto che forse risale al 1918 per trattare quella pandemia (la “febbre Spagnola”) che ha colpito e ucciso un numero di persone nel mondo dieci volte più grande di quello finora contagiato dal Covid19 (che interessa una popolazione quasi dieci volte più numerosa), ma in condizioni di densità di popolazione e di mobilità (probabilità di contatti “contagianti”) assolutamente non confrontabili con la situazione odierna.
Guariti e deceduti: come, dove e perché
Diciamo dunque che il numero dei guariti riguarda con tutta probabilità solo quelli dimessi da ospedali pubblici, perché stento a credere che quelli guariti in casa o in strutture private abbiano voglia di sottoporsi alle trafile burocratiche necessarie a informare della propria guarigione, che come si è detto richiede di sottoporsi ad almeno due tamponi con esito negativo.
Le stesse difficoltà si presentato per i deceduti (per i loro parenti, ovviamente) con l’aggravante degli orari dell’ufficio anagrafe nei giorni festivi: rimarrà fra gli aneddoti curiosi del Virus l’episodio di quel giorno festivo in cui, nel bel mezzo di una serie nerissima per le tre regioni del Nord in cui il contagio si era più diffuso, la Lombardia “comunicò” che “non c’erano deceduti”, ma tutti i telegiornali si affrettarono a precisare che “forse” i dati dei decessi non erano pervenuti; e infatti già dal giorno successivo si ebbero crescite anomale proprio di quel dato.
Fra tutti gli altri numeri forniti nei primi giorni destarono interesse quelli dei “ricoverati in terapia intensiva”. Quando l’epidemia era ancora solo in Cina, si cercava di rassicurare le popolazioni attribuendo al virus scarsa aggressività, ma anche bassa mortalità, paragonandolo spesso alla ben maggiore gravità dell’influenza stagionale che tutto il mondo conosce. Ma non si pensava che gli organi colpiti da questo virus fossero così diversi e così (velocemente) danneggiabili. Solo molto più tardi si cominciò a pensare che certe gravissime e fulminanti polmoniti riscontrate in Cina potessero già essere state causate da quel virus che, si cominciava a capire, si introduceva attraverso le vie respiratorie superiori ma produceva i maggiori danni a livello di alveoli polmonari dove si hanno i principali scambi tra ossigeno aspirato e sangue; si ritiene tuttora che le forme più gravi siano da attribuire a “trombi”, prodotti dal virus, che bloccavano questo processo: il paziente in pratica credeva di respirare, ma l’aria non giungeva a destinazione e molto rapidamente moriva per asfissia se non gli si procurava il cosiddetto “polmone artificiale”.
Esperienza sul campo
Ciò rendeva necessario un trattamento d’urgenza (terapia intensiva) con intubazione e respiratori polmonari. Tali attrezzature in certi ospedali non sono per niente disponibili tuttora (a causa di certe assurde “politiche sanitarie”, del resto largamente condivise dai direttori degli ospedali) e ci si rese subito conto che il numero di posti disponibili per terapia intensiva in nessun Paese del mondo era sufficiente a trattare le necessità di questa pandemia. L’Italia fu colpita per prima, subito dopo la Cina, e si trovò impreparata come esperienza specifica del personale sanitario, e del tutto senza mezzi tecnologici, per cui si allestirono in tutta fretta i posti letto e si inventarono letteralmente degli speciali respiratori (resteranno forse nella storia quelli che Decathlon ricavò da normali maschere per subacquei), mentre non sembra che l’emergenza sia stata grave per i monitor del resto prontamente donati da chi ne aveva la disponibilità. Si progettarono e si costruirono grandi ospedali, che non si fece neanche in tempo a attivare perché finalmente i medici si ripresero dallo sbandamento iniziale e trovarono il modo di curare i malati facendo il minimo ricorso alle terapie intensive: la percentuale attuale di ricoverati in terapia intensiva (rispetto al totale di curati in ospedale) è veramente al minimo (poche decine in tutta Italia, rispetto alle molte migliaia del picco) e anche in questo caso non credo che ciò dipenda da mutazioni del virus, ma semplicemente dall’esperienza acquisita (tardivamente) dai medici, che stanno imparando a capire che cosa (e quando) sia più conveniente fare.
La terapia intensiva
Nel frattempo si raggiunse il picco massimo delle mortalità perché moltissimi anziani pagarono con la vita l’inesperienza dei medici, che inizialmente ancora discutevano se i pazienti dovessero essere intubati a pancia in giù per un migliore uso dei respiratori. Per tutti questi motivi si creò nel “pubblico dei sani” la curiosità di sapere qualcosa sulla disponibilità di posti in terapia intensiva, tenendo conto anche di quelli offerti da Paesi stranieri, come se fosse normale pensare che un malato ai limiti del soffocamento potesse essere trasferito per centinaia di km solo per dare soddisfazione alla generosità del presidente di un Paese Amico (eppure fu fatto, almeno per qualche decina di posti in Germania). E fu così che nei bollettini giornalieri si introdussero fin dal primo giorno i dati riguardanti la terapia intensiva: nuovi ricoverati, posti liberati (per deceduti o dimessi), posti ancora disponibili. Al pubblico questa informazione “non poteva interessare di meno”, visto che nessun paziente “normale” (cioè senza “conoscenze” in strutture private) poteva avere voce in capitolo sulla scelta della propria sorte: si scompariva dietro le porte di un ospedale più o meno remoto ed era già molto se i familiari venivano informati della morte del paziente (almeno così riferivano i giornalisti a suo tempo). Conosco persone che per evitare questa terribile fine hanno rilasciato una dichiarazione scritta ai parenti in cui chiedevano formalmente di impedire che venissero ricoverati in una terapia intensiva di ospedale pubblico. Fortunatamente non se ne è presentata la necessità e quindi non posso sapere se sia mai stato dato valore a una simile dichiarazione, ma personalmente resterò per sempre terrorizzato dalle notizie e dalle immagini che in Italia e all’estero furono fornite sulla situazione di affollamento e di caos delle terapie intensive (e degli obitori e cimiteri) nella fase acuta del contagio. Ancor peggio è immaginare ciò che non si è visto e non è ancora trapelato dalle Case di Riposo per anziani. Sarebbe utile tuttavia che in questa fase relativamente tranquilla una commissione di “esperti” elaborasse un protocollo per evitare che si verifichino in futuro simili carneficine: è noto che, almeno in Italia, i medici sono molto ligi ai protocolli in qualunque situazione, anche non catastrofica. Solo per chiudere con un mezzo sorriso, raccomanderei in futuro di non mettere il segno “più” o “meno” davanti ai vari numeri, perché, come tutti avranno potuto constatare, solo l’occupazione e la liberazione di posti in terapia intensiva ha bisogno di distinguere, ma solo perché qualcuno ha deciso di usare per questo parametro la somma algebrica di due parametri: “occupati” e “liberati”. Tutti gli altri, soprattutto i morti, hanno il segno +, che quindi può essere sottinteso.
Quanto siamo contagiosi?
Resta da esaminare l’ultimo dei parametri divenuti popolari (e rimasti incompresi, almeno per la maggioranza dei giornalisti): quello della probabilità di trasmissione del contagio, chiamato inizialmente “erreconzero” (R0) e, dopo il superamento del picco dei contagi, “errecontì” (Rt). Mi assicurano che i due termini sono pressocché equivalenti (Rt contiene più informazioni di e R0 sulle caratteristiche che influenzano la rapidità del contagio); essi danno una misura della probabilità che ha un soggetto (positivo) di contagiare nuovi soggetti (negativi), ma anche, viceversa, la probabilità che un soggetto sano ha di essere contagiato da uno malato. In sostanza R0=3 pare che significhi che un certo giorno un positivo finirà per contagiare 3 persone che erano sane, mentre R0=0,2 dovrebbe significare che uno che si è svegliato negativo ma che abbia frequentato positivi, se ne ha frequentati almeno 5 alla fine della giornata si troverà certamente contagiato. Mi pare che la ministra Azzolina (o altro suo degno collega) per avere affermato una cosa del genere sia stata messa alla berlina e costretta a scusarsi e può darsi che a me succederà di peggio, ma a me basta sapere che questi indici sono correlati alla ripidità della curva dei contagi in salita o in discesa, si ricavano da complesse operazioni fatte sui dati della giornata e alla fine al cittadino interessano poco o niente, perché con tutti gli altri dati ricevuti dovrebbe avere capito se le cose si stanno mettendo male o bene; tuttavia in ogni articolo di giornale i valori di questi indici ci sono, accompagnati dalle più strane osservazioni e previsioni, ma mai dalla descrizione dei rimedi. Ciò che ha sempre impressionato i giornalisti, e quindi l’opinione pubblica, è che questo indice sia sempre positivo, non vada mai a zero ed è tanto più “buono” quanto più si avvicina a 1, sia dall’alto, sia dal basso.
L’affidabilità dei campioni
Ma alla fine di questo lunghissimo discorso desidererei ribadire che l’unico dato “complicato” che potrebbe risultare utile al cittadino (oltre ai tre descritti di: ”contagiati”, “guariti”, “deceduti”) è quello, giornaliero o con altra periodicità, del rapporto fra nuovi positivi e nuovi testati con tampone, nell’ipotesi, purtroppo illusoria, che il campione giornaliero di testati sia in qualche modo rappresentativo della composizione complessiva della popolazione controllata. Per esempio si dividano uomini e donne per fascia di età e per ogni genere e ogni fascia di età si scelga lo 0,1% (una persona ogni 1000 abitanti) da sottoporre a tampone un certo giorno. Il campione sarebbe abbastanza rappresentativo di una popolazione (si dovrebbe selezionare anche in base alle professioni, per esempio), ma se si volesse monitorare in questo modo l’Italia intera (60 milioni di abitanti) ciò significherebbe praticare 60.000 tamponi al giorno per circa tre anni, durante i quali forse tutti sarebbero morti o al contrario la pandemia sarebbe scomparsa. Quindi un tale campionamento è impraticabile per l’Italia; figuriamoci per gli Stati Uniti o l’India. Ci si deve perciò accontentare di campioni anche 100 volte più piccoli e tuttavia i risultati ottenuti sarebbero sempre migliori di quelli ricavati dai numeri forniti da fine febbraio a questa parte, che sono basati su campioni improvvisati e determinati in base a “zone rosse”, oppure a “categorie a rischio”, perciò secondo giustificati criteri di “urgenza”, ma non certo di rappresentatività. Comunque ogni tanto questo tipo di risultato (cioè numero di “positivi” rapportato ai tamponi effettuati in un certo giorno), seppure insufficiente, viene fornito, ma viene commentato frettolosamente e male, mentre secondo me sarebbe l’unico da cui ricavare la più verosimile “curva dei contagi” (ma anche dei guariti e dei deceduti).
I malati sono molti di più
Ultimissima notizia: un altro numero bislacco che si incomincia a dare all’inizio di agosto è il rapporto tra quanti hanno sviluppato anticorpi (positivi ai test sierologici) e quanti risultano contagiati secondo i test col tampone: si dice che attualmente il rapporto sia circa 6 (sei); ciò significherebbe che in Italia il vero numero di ammalati di Covid19 è oltre sei volte maggiore di quello stimato dai risultati dei tamponi praticati. La curva epidemiologica usata finora andrebbe completamente riveduta e ovviamente non basta spostarla più in alto di sei volte: partirà da zero, come ogni curva che si rispetti, raggiungerà più rapidamente il picco in un tempo diverso da quello stimato finora e a un livello ben oltre sei volte superiore a quello della curva ottenuta coi tamponi, scenderà a una velocità molto maggiore della curva dei tamponi e si spegnerà più lentamente e più lontano. Naturalmente, non servirà a un bel niente, né in Italia, né all’estero (dove è improbabile che si usi una stessa metodologia) e non credo che potrà rimpiazzare la curva dei tamponi nella seconda ondata, perché, come forse si è già detto, ha un valore diagnostico irrilevante, essendo tardivo. Sarà un altro stupido giochetto per far passare il tempo agli “esperti” e agli spettatori non esperti. Speriamo dunque (sempre meno convinti) che le autorità sanitarie locali e internazionali facciano tesoro degli errori della prima ondata (se mai se ne fossero rese conto: i “professori” hanno perso tempo in tentativi dilettanteschi, che hanno dato l’opportunità di esprimere autorevoli e autoritarie opinioni anche agli ottusi presidenti delle più grandi “potenze” mondiali) e li correggano per la seconda ondata per evitare danni peggiori.
Naturalmente il compito di coordinare e organizzare spetterebbe ancora all’OmsS: ma allora non sarebbe forse il caso di fare piazza pulita dei vertici attuali, affidandoli per il futuro a veri “scienziati” e a manager capaci? E’ una pia illusione, perché la seconda ondata è prevista per l’autunno 2020; e neanche se mancassero dieci anni si potrebbe sperare di vedere volti e strategie nuove (nemmeno in Iss, ovviamente).