di John Redleft – Il XX Settembre 1870 l’Esercito italiano entrò in Roma attraverso Porta Pia. Per quella stessa breccia, dal Vaticano, i preti sciamarono nel Paese, più forti di prima. La Città Eterna rimase qual era da secoli, scettica e rassegnata. L’Italia divenne più bigotta: non per fede, ma per opportunismo. La superstizione ebbe e ha la meglio sulla ragione.
Giacomo Segre, il cannoniere di Porta Pia
Lo intuirono gli assalitori quel Venti settembre 1870. Perciò tennero un profilo basso e prudente. Bisognava aprire il fuoco contro perché Pio IX aveva fatto sapere che avrebbe ceduto solo alla violenza.
Ma chi doveva assumere un compito per molti sacrilego? Si rischiava la scomunica – che poi c’è stata per tutti – per questo toccò a un ebreo iniziare il bombardamento per cui fu il capitano d’artiglieria Giacomo Segre (Saluzzo, 1839 – Chieri, 1894), comandante della 5a batteria pesante del 9° reggimento di artiglieria del Corpo d’Esercito comandato da Raffaele Cadorna. Tirò la prima cannonata alle 5.20 del mattino. Contrariamente alle attese, i pontifici, però, non stettero affatto a guardare. Mieterono parecchie vittime con fuoco di precisione.
Perciò il generale Enrico Cosenz, un altro ebreo nonché garibaldino, mandò in soccorso i tiratori scelti del 34° battaglione bersaglieri: quelli che poi attraversarono la Breccia. Tra gli altri alla liberazione di Roma partecipò anche il sanremasco Gio Bernardo Calvino, detto “Italianissimo”, massone come lo sarà anche suo figlio Mario, celebre botanico e nonno di Italo, lo scrittore. La carriera dell’artigliere Giacomo Segre tutto sommato fu modesta: colonnello e commendatore dell’Ordine della Corona. Lavorò all’Arsenale ai forti di Tenda. Lasciò il servizio pochi mesi prima di morire, appena cinquantacinquenne.
Il figlio del Capitano Segre fu determinante per la vittoria nella Grande Guerra
Suo figlio, Roberto (Torino, 1872 – Milano, 1936; nella foto), ne seguì le orme: italiano di valori civici, israelita di religione. La sua è una vicenda paradigmatica. La racconta il colonnello Antonino Zarcone in “Come una granata spezzata nel tempo”, edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
Allievo a tredici anni nel Collegio militare di Milano, quando il padre era direttore dell’Arsenale di Torino, Roberto Segre percorse la carriera militare, alternando studi e servizio. Capì tra i primi in Europa che l’artiglieria non era solo un supporto della fanteria. L’Arma Dotta aveva un compito proprio. Energico e resistente alla fatica fisica e mentale, Segre dette ottime prove nell’impresa di Libia e nella Grande Guerra. Si distinse al seguito del Duca d’Aosta, Emanuele Filiberto, e poi dalla liberazione di Gorizia (1916) alla battaglia del Solstizio (giugno 1918), quando i pezzi da lui comandati furono risolutivi.
Il potere temporale del Papa crolla
“Mentre scrivo, le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli”. Così accoglieva la breccia di Porta Pia Francesco De Sanctis, il 20 settembre 1870, quando il generale Cadorna e il suo esercito entrarono nello Stato Pontificio, strappando al Papa l’ultimo baluardo di potere temporale e facendo di Roma la capitale del Regno. L’Europa dell’epoca era scossa dal conflitto franco-prussiano e lo storico difensore del Papa, il francese Napoleone III, aveva perso la guerra ed era stato imprigionato, venendo meno all’impegno verso il Pontefice. Al Papa restava soltanto San Pietro, dove si rifugiò in un primo momento, mentre lo Stato Pontifico cominciava a dissolversi.
Si compiva l’ultimo atto dell’unificazione d’Italia, l’apice del Risorgimento Italiano, e giungeva al termine la “questione romana”, quella guerra tra ragioni di Stato e ragioni di Chiesa che era stata combattuta a suon di encicliche e di minacce di occupazione.
“Non possumus”
A nove anni dalla proclamazione della “Libera Chiesa in Libero Stato” nel novello parlamento italiano da parte di Camillo Benso conte di Cavour, Roma diventava la capitale di un’Italia nuova che, in ritardo rispetto al resto d’Europa, proclamava la sua adesione alla modernità.
Prendendo in prestito le parole dai padri della Chiesa Pietro e Paolo, papa Pio IX rispose “Non possumus” alla lettera in cui, l’8 settembre del ‘70, Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II gli annunciava la necessità di occupare lo Stato Pontificio. E ancora “Non possumus” aveva sentenziato quando, l’11 settembre del ‘48, dalla piazza del Quirinale il popolo romano gli chiedeva la Costituzione, e allo stesso modo aveva risposto tutte le volte che qualcuno aveva tentato di spodestarlo rimarcando con solennità la difesa della Chiesa dei padri.
La presa di Roma (se cliccate sotto potete vedere una scena molto significativa del film “In nome del papa re” del 1977, diretto da Luigi Magni e magistralmente interpretato da Nino Manfredi, che racconta il processo contro i massoni – citati dal pm come “muratori” – Monti e Tognetti “giustiziati” due anni prima della Breccia di Porta Pia) avvenuta senza spargimento di sangue per volere del Papa, ha aperto uno squarcio nella frontiera che la Chiesa aveva innalzato tramite una fitta attività editoriale, di cui l’enciclica “Quanta Cura” e il “Sillabo” (1864) erano i manifesti ufficiali, a condanna delle dottrine moderne e liberali che avrebbero trovato, poi, spazio nelle prime file del parlamento italiano. Per quanto straordinaria, la caduta temporale del Papa determinata dalla breccia di Porta Pia non era proprio novità per quel secolo: il pontefice era stato deposto già nel 1798 in occasione dell’invasione francese, poi nel 1808 col dilagare delle repubbliche napoleoniche e nel 1848 in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana.
La risposta cattolica: Don Sturzo
La determinazione di Pio IX nel mantenere Stato e Chiesa ugualmente sovrani e distinti durante il suo lunghissimo pontificato (quasi 32 anni) ha portato, dopo la breccia di Porta Pia, all’esclusione dei cattolici dalla politica tramite il “Non expedit” da lui pronunciato, che ebbe fine soltanto nel 1919 con la fondazione del Partito Popolare Italiano.
Solo nel 1929, con la firma dei patti Lateranensi tra il Cardinal Gasparri e Benito Mussolini (sotto a sinistra), sono riprese le relazioni di mutuo riconoscimento tra Stato e Chiesa, mettendo fine alla “questione romana”.
Il mantenimento dell’unità dei cattolici, voluta da papa Leone XIII, diventava sempre più arduo. Don Luigi Sturzo (a destra), sacerdote di Caltagirone, tentò invano di introdurre nell’Opera una riflessione sui problemi dell’Italia Meridionale, che aveva sempre più approfondito nell’esperienza diretta del mondo contadino negli anni della crisi agraria.
Luigi Sturzo nel 1900 fu visto tra i fondatori della Democrazia Cristiana Italiana, ma in realtà aveva pure rifiutato la tessera del partito, guidato da Romolo Murri, e nello stesso anno, essendosi scatenata in Cina la Ribellione dei Boxer, che volevano la cacciata degli stranieri dalla Cina, Sturzo presentò formale domanda al vescovo per partire missionario in quelle terre lontane, ma il vescovo, date le sue precarie condizioni di salute, gli negò il suo consenso e Sturzo ubbidì. Verso i primi anni del Novecento Luigi Sturzo divenne il collaboratore del quotidiano cattolico Il Sole del Mezzogiorno e nel 1902 guidò i cattolici di Caltagirone alle elezioni amministrative.
Nel 1905 sarà nominato consigliere provinciale della Provincia di Catania. Sempre nel 1905, alla vigilia di Natale, pronunciò il discorso di Caltagirone su “I problemi della vita nazionale dei cattolici”, superando il “non expedit”. Nello stesso anno venne eletto pro-sindaco di Caltagirone (mantenne la carica fino al 1920). Nel 1912 divenne vicepresidente dell’Associazione Nazionale Comuni d’Italia.
Nel 1915, essendo stato molto attivo nell’Azione Cattolica Italiana, divenne il Segretario generale della Giunta Centrale del movimento.
Nel 1919 fondò il Partito Popolare Italiano (del quale divenne segretario politico fino al 1923) e il 18 gennaio 1919 si compie ciò che a molti è apparso l’evento politico più significativo dall’unità d’Italia: dall’albergo Santa Chiara di Roma, don Sturzo lancia “l’Appello ai Liberi e Forti”, carta istitutiva del Partito Popolare Italiano: “A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”.