Buongiorno e buon sabato,
fra le poche certezze che abbiamo nella vita c’è l’assioma “riforma della giustizia uguale polemiche assicurate”. Non c’è scampo: ogni volta che si tenta di mettere mano in questo campo, si scatena una battaglia feroce e il risultato finale è spesso lo stesso, ovvero la rinuncia a un riordino complessivo del settore.
Succede a causa della delicatezza e dell’importanza che riveste l’amministrazione della giustizia e delle resistenze che si sollevano all’interno di una parte della magistratura, che troppo spesso legge ogni ipotesi di intervento come un’invasione di campo. La magistratura è giustamente tutelata in Costituzione come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ma è dovere del legislatore intervenire per garantire un efficace svolgimento della funzione giurisdizionale, cosa che come sappiamo troppe volte in Italia non avviene.
Non stupisce dunque che anche la proposta di riforma della ministra Marta Cartabia sia diventata oggetto di uno scontro molto forte con accuse al governo da parte di singoli magistrati e del Csm (Consiglio superiore della magistratura) e addirittura con ipotesi di ritiro dei ministri da parte del Movimento 5 Stelle in quanto verrebbero cancellati i cambiamenti introdotti dal precedente Guardasigilli, il grillino Alfonso Bonafede.
Oggetto della contesa sono in particolare la durata dei processi e i tempi in cui si prescrivono, temi sui quali gli esperti dibattono con argomentazioni opposte da settimane. Ma senza addentrarci nelle diverse tesi, c’è un punto importantissimo da considerare, una sorta di pre-condizione che bisogna tenere presente se vogliamo valutare con oggettività il progetto del governo. Il punto è questo: l’eccessiva lunghezza dei processi – che provoca l’accumulo di cause nei tribunali – è un male storico dell’Italia. Spesso si traduce in palese violazione della dignità e dei diritti delle persone, è causa di pesanti costi per il funzionamento del Paese, ci è costata ripetute condanne da parte di corti europee e soprattutto viola il dettato costituzionale, laddove all’articolo 111 parla di “ragionevole durata” dei processi che deve essere assicurata per legge.
La ministra Cartabia ha presentato una riforma che vuole curare questa vergogna italiana, prevedendo tempi stabiliti per i tre gradi di giudizio, assumendo personale e promuovendo uno sviluppo digitale del lavoro così da mettere i tribunali nelle condizioni di evitare ritardi.
Naturalmente si può e si deve discutere se gli interventi previsti sono efficaci o meno, se vanno modificati, integrati o addirittura sostituiti con altri. Mentre troppo spesso il fronte delle critiche si concentra su un altro aspetto. Si dice: “Il governo accorcia i tempi e così verranno prescritti tanti processi”. Viene cioè dato per scontato che la nostra giustizia è lenta e sempre lo sarà; si buttano via le regole della Costituzione e la necessità di garantire giustizia in tempi certi, cioè di rispettare i cittadini. Si evita di intervenire sulle cause della malagiustizia. Gli oppositori della riforma in pratica dicono: poiché la nostra giustizia è lenta, la nostra risposta è allungare i tempi, bloccare la prescrizione come previsto dall’ex ministro Bonafede. E vabbé se qualcuno verrà riconosciuto innocente magari soltanto dopo 10 anni o più in cui il suo destino è rimasto a galleggiare nella cancelleria di un tribunale.
Al di là della vicenda Cartabia, questo è un modo di pensare che mi spaventa. Perché rinuncia per principio a trovare una soluzione ai problemi: li assume come dati di fatto, come un prezzo che va pagato in nome dell’incapacità di agire.
Ma questo è il contrario della politica, va contro il primo dovere di chi amministra la cosa pubblica: migliorare le condizioni di vita dei cittadini, offrire prospettive di crescita individuale e collettiva. Qualcosa cui, ora più che mai, non dobbiamo assolutamente rinunciare.
Una certa idea di giustizia
