Vercelli – Nella politica d’accatto italiana per essere eletti si fa qualsiasi cosa e si stringono un mucchio di mani. Per questo secondo la tesi della difesa, che ha prevalso, Roberto Rosso candidato del partito di Giorgia Meloni alla Regione Piemonte, non c’era nessuna consapevolezza di star trattando con due esponenti della ‘Ndrangheta (ma allora non faccia il politico perché se è un pirla non può gestire il bene comune), non sapeva chi fossero Francesco Viterbo e Onofrio Garcea, non l’aveva capito e non li ha mai cercati perché sarebbero sempre stati loro a cercare lui. Ieri s’è tenuta l’88à udienza ad Asti del processo in cui il politico di Fratelli d’Italia è accusato di voto di scambio politico mafioso, per cui rischia di essere condannato a 11 anni per aver “comprato pacchetti di voti in cambio di 8.000 euro dopo un accordo iniziale di 15.000” secondo i pm Paolo Toso e Monica Abbatecola. L’arringa dell’avvocato Giorgio Piazzese s’è incentrata nello smontare pezzo per pezzo tutte le argomentazioni dell’accusa, offrendo interpretazioni alternative a dialoghi e intercettazioni. Partendo però da un assunto, che non ci sia stata volontà da parte di Rosso di stringere un accordo con la mafia. Non si sarebbe ricordato dell’interpellanza firmata anche da lui 7 anni prima in cui compariva già il nome di Garcea perché per la difesa Rosso è “un ingenuo, uno sprovveduto, un buono. Ma non colluso con la ‘Ndrangheta. Un piacione, che stringe quante più mani possibili, uno per cui sono tutte brave persone. Roberto Rosso non distingueva il pericolo perché è un bipolare e il bipolare ha una scarsa capacità di analisi della realtà. Per questo si è affidato a due sconosciuti e gli ha dato 2500 euro: si fida e non può fare altrimenti”. Ma uno così non può gestire un bel niente. Eviti almeno di far politica.
Roberto Rosso? Per la difesa è stato un pirla qualsiasi non colluso con la malavita organizzata
