Roma (Attilio Bolzoni di Domani) – Alla fine sono riusciti a far declinare le generalità a un Presidente della Repubblica: “Napolitano Giorgio, nato a Napoli il 29 giugno 1925 e residente a Palazzo del Quirinale, Roma…”. A cosa sia servita la deposizione del testimone più eccellente non si è mai capito, di sicuro quel giorno è stata scritta la pagina più tormentata di una guerra istituzionalmente sanguinosa fra una Procura della Repubblica e un Capo dello Stato. Sembra passato un secolo, tutto è accaduto un’estate di poco più di dieci anni fa. La Procura ”autonoma” di Palermo contro l’Italia rappresentata dal suo Presidente.
La “casualità” delle comunicazioni ascoltate
Il procedimento penale era il numero 11609/08, il processo sulla trattativa, la materia del contendere quattro telefonate intercettate fra Giorgio Napolitano e il ministro dell’Interno Nicola Mancino – allora imputato (poi assolto) per falsa testimonianza – su un totale di 9.295 comunicazioni ascoltate dai funzionari della direzione investigativa antimafia intorno ai misteri di un patto indicibile. Naturalmente, solo quelle quattro hanno fatto clamore e hanno fatto scandalo. Ma la voce di Napolitano, anche se captata “indirettamente”, sarebbe potuta scivolare in un ‘inchiesta giudiziaria? Le parole di un presidente della Repubblica potevano davvero finire fra le pieghe di un’indagine dove lo stato stava processando sé stesso? Intercettazioni catturate per caso, un caso che però ha messo sottosopra l’Italia, un “partito” pro Napolitano e un “partito” pro pubblici ministeri di Palermo, polemica arroventata con gran parte della magistratura schierata contro Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, i sostituti procuratori che indagavano sulla trattativa stato-mafia e che avevano osato puntare la loro attenzione investigativa sul primo degli italiani.
Che cosa si erano mai detti Mancino e Napolitano in quelle quattro telefonate durate diciotto minuti, la prima datata 7 novembre 2011 e l’ultima 9 maggio 2012? Quali segreti si erano confidati? E poi, erano proprio segreti o chiacchiere in libertà fra due vecchi amici?
La distruzione all’Ucciardone
Il presidente della Repubblica non la prese bene. Anche perché cominciarono a diffondersi voci incontrollate sul contenuto delle telefonate, sussurri e grida, sospetti piccoli e grandi. Così Giorgio Napolitano chiese alla Corte Costituzionale di risolvere “il conflitto fra poteri”. E così il 15 gennaio 2013 la Consulta ordinò di distruggere la “pen drive” dove c’erano le telefonate del Presidente, Tre mesi dopo l’operazione venne materialmente eseguita nell’antico carcere palermitano dell’Ucciardone.
L’affaire sembrava chiuso. Ma in Italia le vicende non si chiudono mai perché si chiudono e poi si riaprono. Il sospetto ce l’hanno avuto i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagavano sulle scorrerie del vicepresidente di Confindustria Antonello Montante, un imprenditore con un passato di frequentazioni mafiose e nonostante ciò piaceva tanto a un paio di ministri dell’Interno e a un po’ di magistrati.
Un intrigo montante
I procuratori di Caltanissetta, in una sessantina di pagine della loro richiesta di custodia cautelare contro Montante, avanzarono l’ipotesi che il funambolico imprenditore fosse entrato in possesso di una duplicazione delle famose telefonate fra Napolitano e Mancino. C’era tutto un mondo di spie intorno a Calogero Montante interessato a quelle conversazioni. Anche il direttore dei servizi segreti del tempo Arturo Esposito, anche l’ex presidente del Senato e attuale governatore della Sicilia Renato Schifani. Tutti e due sono ancora imputati per associazione a delinquere a Caltanissetta. Un bell’ambientino.
Ma le telefonate del Presidente hanno fatto tante altre vittime. Una è il povero Loris D’Ambrosio, il vecchio amico di Giovanni Falcone stroncato da un infarto nei giorni della discovery delle carte sulla trattativa stato mafia, nell’estate del 2012. Altre telefonate, questa volta fra D’Ambrosio e Mancino. E altri sospetti, questa volta sino all’infarto del consigliere giuridico di Napolitano. Che il 28 ottobre del 2014, in un’udienza solenne e a porte chiuse nelle sale del Quirinale, ha risposto a una ventina di domande dei suoi grandi “nemici”, i procuratori di Palermo.
Pose cerimoniose
Un’esplosione di sorrisi, cerimoniose pose, reciproche morbidezze. Il Capo dello stato ha perfino allargato il confine tracciato dalla corte di assise e confessato il grande ricatto del 1993 nella notte delle bombe e del black out a Palazzo Chigi: “Fu subito chiaro che era un’ulteriore tappa della strategia stragista portata avanti dall’ala più oltranzista di Cosa Nostra per porre i poteri dello Stato davanti a un aut aut”. Giorgio Napolitano ha sostanzialmente ammesso che una fazione della mafia siciliana stava minacciando le istituzioni: o fate i conti con noi o continuiamo a seminare terrore. Altri sorrisi e altre cerimonose pose. Ma la Procura “autonoma” di Palermo non ha mai amato quel Presidente. Affettuosamente ricambiata.