Roma (Sandro Scoppa) – Il report annuale Inps contiene un lunghissimo elenco riportato in ben 1.021 pagine di proprietà immobiliari che semplicemente non vengono utilizzate dall’istituto per le proprie attività e non vengono neanche affittate ad altri, per esempio ai privati. Sono circa 16.000 su 26.000 (il 61% del totale).
Come evidenziato da Confedilizia, gli immobili sono presenti in quasi tutte le province del Paese e coprono le varie tipologie catastali. Ci sono terreni, anche di rilevanti dimensioni, superiori a diecimila metri quadri, non utilizzati, moltissimi magazzini non sfruttati, spesso accanto alle sedi locali dell’Inps, e poi i locali commerciali, ampi anche più di 100 mq e in zone piuttosto appetibili, come via Pacini a Milano, non lontano dalla stazione di Lambrate. Tra i cespiti sono annoverati, ma più spesso lasciati inutilizzati, anche cantine, soffitte, rimesse e garage, sia in Comuni piccoli che in quelli grandi, nonché uffici: 1.437, una porzione dei quali non è affittata né usata direttamente.
A Messina e a San Marcello Piteglio (Pistoia) ci sono addirittura due alberghi lasciati a se stessi, mentre a Catanzaro e a Napoli anche due proprietà registrate come ospedali o case di cura, che non sono utilizzati.
Il dato più scandaloso, tuttavia, è quello che riguarda le abitazioni, ben 7.876. Moltissime tra quelle non occupate sono collocate proprio nelle città in cui è maggiore la polemica sulla mancanza di alloggi per studenti, lavoratori fuori sede, residenti e in cui, per esempio, sono in discussione misure punitive per i proprietari che affittano ai turisti.
Sono dati che suscitano preoccupazione, e sono peraltro destinati a produrre ulteriore allarme qualora si dovesse porre attenzione al fatto che l’istituto della previdenza riesce a quadrare i propri conti a fatica, solo con corpose iniezioni di fondi statali, più di 169 miliardi secondo il bilancio del 2024. Senza questi, le entrate provenienti dai contributi, 247,6 miliardi, non basterebbero neanche per il solo pagamento delle pensioni, che costano 323,5 miliardi.
Individuare le cause di siffatta drammatica situazione, che rappresenta un peso notevole per i cittadini e il bilancio dello Stato, non è semplice, anche se, a ben vedere, il ruolo determinante non può non essere attribuito al sistema previdenziale impiantato in Italia ormai da ben oltre un secolo. Questo è affidato a un ente pubblico, l’Inps, il quale è gestito burocraticamente e opera in regime di monopolio. Per molti anni, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra e sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, lo stesso è stato oggetto di interventi politici generosamente espansionistici delle prestazioni previdenziali. Essi hanno seguito le direttrici dell’estensione della copertura assicurativa a tutte le categorie di lavoratori, dell’introduzione dell’integrazione al minimo per le prestazioni previdenziali, dell’aumento dell’importo delle prestazioni e di un minore rigore per l’accesso ai diversi regimi.
Dagli anni Novanta agli albori dell’allarme pensioni lanciato in passato da più parti, si sono susseguite varie riforme, a iniziare dalla riforma Amato del ’92, per passare a quella promossa da Dini nel 1995 e via via sino alla riforma Fornero, votata dalla coalizione di partiti che sostenevano il governo Monti, poi superata da Quota 102 e quindi da Quota 100 e da altre modifiche. Nelle intenzioni dei promotori, gli interventi riformatori sono sempre stati rivolti a razionalizzare e contenere la spesa pensionistica, mediante – in sintesi – l’introduzione di un diverso calcolo delle pensioni, con estensione del metodo contributivo, in luogo di quello retributivo, l’innalzamento graduale dell’età pensionabile, un diverso meccanismo di indicizzazione delle pensioni e altri interventi accessori, tra i quali l’aumento dei contributi.
Nessuna riforma ha però interessato l’impianto originario dell’apparato, che è rimasto immutato. Infatti, non è stato modificato il metodo di finanziamento a ripartizione, secondo il quale i contributi versati ogni anno dai lavoratori attivi sono utilizzati per pagare le pensioni dei lavoratori a riposo, ossia dei pensionati, né è stata variata la forma di gestione della previdenza in regime di monopolio da parte dell’amministrazione pubblica (Inps). Ebbene siffatto sistema ha palesato ampiamente i suoi limiti, i quali oggi sono diventati ancora più evidenti, tanto da renderlo insostenibile e prossimo all’inevitabile crollo.
A tanto ha condotto, da una parte, il calo del tasso di fertilità e l’aumento delle aspettative di vita, con la conseguenza che sempre un minor numero di lavoratori può sostenere i pensionati, salvo l’adozione di ulteriori interventi-tampone per aumentare in modo ancor più spropositato sia le tasse che l’età pensionabile; dall’altra, unitamente a un ridotto tasso di crescita economica, la cresciuta a dismisura della spesa per la previdenza, la quale oggi rappresenta la voce più pesante del bilancio dello Stato.
Un ulteriore motivo di criticità, ma non di certo secondario, è poi costituito dalla cronica inefficienza e dai costi della gestione monopolistica pubblica della previdenza, la quale fornisce burocraticamente dei servizi che si è obbligati ad acquistare in blocco, verso un corrispettivo che varia a seconda delle persone e in base a scelte effettuate a livello politico, ed esclude a priori la responsabilità del consumatore e la sua libertà di scelta. I suoi risultati, inoltre, non hanno valore monetario né possono essere controllati tramite il calcolo economico, diversamente da quanto è invece essenziale per le imprese private che operano nel mercato, che hanno come scopo tipico la ricerca del profitto.
Per uscire dalla crisi, evitando il collasso, non è discutibile che occorra innanzi tutto intervenire con la liberalizzazione del settore della previdenza, che sottrarrebbe la stessa al monopolio pubblico per rimetterla a gestori privati operanti nel mercato e in concorrenza tra di loro, pronti a soddisfare le necessità e i bisogni di protezione degli individui-consumatori. Questi, con le loro scelte, decreterebbero il successo o l’insuccesso delle iniziative intraprese dai citati gestori privati, per i quali i risultati delle loro attività avrebbero valore monetario ed essere controllati tramite il calcolo economico. È poi necessario abbandonare il vigente sistema a ripartizione, il quale, al di là della sue ormai consolidate finalità redistributive, rappresenta pure un ibrido, il quale non è in nessun caso un programma assicurativo in cui i pagamenti degli individui acquistino prestazioni attuariali equivalenti, ma è la combinazione di un’imposta particolare e di un programma particolare di trasferimenti.
Al suo posto è necessario introdurre il diverso metodo di finanziamento a capitalizzazione su basi private, che è invece imperniato sulla responsabilità individuale e sull’investimento di risparmi privati, e non prevede trasferimenti coercitivi da un individuo a un altro. Il suo funzionamento comporta che i contributi versati da ogni singolo individuo non siano utilizzati per pagare le prestazioni di coloro che hanno dismesso di lavorare, ma vengono accantonati in un fondo (o investiti dal gestore); al momento del pensionamento (o anche prima di detta epoca), il montante contributivo versato, rivalutato secondo il frutto degli investimenti, viene erogato all’individuo sotto forma di prestazione pensionistica o, eventualmente, in forma unica. Le riserve accantonate fungono anche da garanzia per le future prestazioni, laddove in regime di ripartizione, gestito attraverso il monopolio pubblico, l’adempimento non può dirsi certo, oltre a essere difficilmente assicurabile, ed è unicamente rimesso ai prelievi coercitivi dello Stato.
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