Alessandria (Max Corradi) – Ieri il ministro Matteo Salvini era ad Alessandria per presentare il progetto del maxi scalo merci con avvio dei lavori ad aprile 2026. E ha detto pubblicamente che nel 2033 vuole tornare per l’inaugurazione dell’opera, senza nascondere l’entusiasmo in occasione della presentazione del masterplan del nuovo polo logistico e urbano di Alessandria, avvenuto ieri nell’aula magna del Dipartimento di Scienze e Innovazione Tecnologica dell’Università del Piemonte Orientale. Un progetto che prevede un cantiere che dovrebbe portare all’ammodernamento del fascio di binari e delle sue tecnologie di scambio ferro-ferro e ferro-gomma, con una trasformazione dell’area in parco intermodale. Mentre leggiamo che lo scalo di Alessandria rappresenta il futuro della logistica del Basso Piemonte (in gran parte in mano alla ‘Ndranhgeta, ma questo gli altri non lo scrivono) il cargo ferroviario italiano è in sofferenza. E mentre il ministro Salvini che, come al solito, non sa quello che fa e fa quello che non sa, inaugura il nodo logistico ferroviario di Alessandria – un mucchio di tonnellate di ferraglia arrugginita inutilizzata da 50 anni che per i ferrovieri, che invece sanno quello che fanno e fanno quello che sanno, dovrebbe essere distrutta per fare spazio a impianti al passo coi tempi.
Il settore logistica ferroviaria è alla canna del gas con una diminuzione dell’8,3% in termini di tonnellate trasportate e del 6,7% in tonnellate-km nel 2023 rispetto all’anno precedente. Questo calo, stimato in 90 milioni di euro di perdite di fatturato, rappresenta una battuta d’arresto rispetto alla stabilità del 2022 e alla ripresa osservata nel 2021. Le prospettive non sono incoraggianti, con previsioni negative sia a livello nazionale che europeo.
Tra i fattori alla base della crisi abbiamo:
- cantieri del PNRR, che creano interruzioni nella rete ferroviaria;
- cancellazioni dovute a manutenzioni nei valichi alpini;
- calamità naturali e un calo dell’export verso l’UE;
- domanda interna stagnante, che limita ulteriormente la ripresa.
L’assenza di una governance unitaria ostacola la pianificazione strategica delle imprese logistiche. La regolamentazione frammentata e spesso penalizzante, unita a una fiscalità complessa, rende difficile affrontare temi cruciali come la transizione ecologica, la semplificazione burocratica e la competitività internazionale.
Il traffico merci su ferrovia in Europa nel 2023 era pari a 116 miliardi di tonnellate al km. Quale sarebbe il traffico aggiuntivo sulla rete stradale qualora il trasporto su ferrovia fosse azzerato. Ipotizzando che le merci oggi movimentate su ferro sono trasportate con autoarticolati e assumendo un carico medio di 15 tonnellate per veicolo (coefficiente di utilizzo medio della portata utile del 50 per cento), si avrebbe un incremento del volume di traffico pesante pari a 7,7 miliardi di km corrispondenti a 15,4 miliardi di km in auto-equivalenti. Il traffico merci su ferrovia equivale dunque a circa il 2% del traffico stradale.
Alla luce di tali dati risulta evidente come lo spostamento modale delle merci dalla gomma al ferro non possa ridurre, se non in misura marginale, il traffico veicolare. E qualora il traffico merci su ferro raddoppiasse (cosa non certo facile da realizzare), si sottrarrebbe alla strada traffico per un altro 2%, ovvero quanto il traffico stradale cresce in uno o due anni. A tale limitazione di tipo quantitativo se ne sovrappone una qualitativa. I livelli di utilizzo della capacità stradale risultano essere alquanto differenziati sia in termini spaziali che temporali. Gli episodi di congestione interessano infatti una quota limitata della rete stradale e autostradale. Le condizioni più critiche di circolazione, cui sono correlati i più elevati costi esterni, interessano prevalentemente i segmenti di rete a ridosso delle maggiori aree metropolitane. Un eventuale riequilibrio modale lascerebbe pressoché immutata la situazione su tali tratti di infrastruttura. Non essendo immaginabile un ritorno alla situazione di un secolo fa quando la quasi totalità delle aziende manifatturiere disponeva di un raccordo diretto alla ferrovia, la tratta iniziale e quella finale di un trasporto acquisito dalla ferrovia, continuerebbero a essere effettuate su gomma, in larga parte sulle tratte più congestionate col risultato che tutti i principali centri del Nord del paese, a partire da Milano, non trarrebbero quasi nessun giovamento dal trasferimento strada/rotaia. E, viceversa, il percorso su ferrovia risulterebbe parallelo a tratte della rete autostradale dove si registrano prevalentemente buone condizioni di deflusso. Tale condizione accomuna i due segmenti di mercato dove più significativa è la possibilità di acquisizione di domanda da parte della ferrovia, ossia i flussi tra il Nord e il Sud Italia e quelli con l’estero: è il caso, tra gli altri, della nuova linea Torino-Lione che ridurrebbe i flussi, già oggi molto modesti, sulla tratta autostradale fra il capoluogo piemontese e la Francia, ma non apporterebbe benefici al semianello tangenziale della città che continuerebbe a essere percorso dai mezzi pesanti diretti o provenienti dal locale terminale intermodale.
La strategia del riequilibrio modale sembra dunque assommare inefficacia e inefficienza. Meglio sarebbe puntare su un migliore utilizzo della capacità della rete autostradale con l’adozione di livelli di pedaggio variabili nell’arco della giornata e della settimana, e prevedere un ampliamento della capacità ove necessario. Tale strategia, a differenza di quella del riequilibrio modale, non comporta oneri per la finanza pubblica. Laddove più elevati sono i livelli di traffico, l’adeguamento dell’offerta infrastrutturale può essere infatti realizzato senza far ricorso alla fiscalità, ma recuperando gli investimenti tramite gli introiti dei pedaggi.